Cassazione civile sentenza 6 ottobre 2016 n. 20041

Suprema Corte di Cassazione

sezione II civile

sentenza 6 ottobre 2016, n. 20041

(…omissis…)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell’aprile 2006 (OMISSIS) e (OMISSIS) citavano in giudizio (OMISSIS) e (OMISSIS) deducendo che il (OMISSIS) era deceduta (OMISSIS), moglie di (OMISSIS) e madre dei germani (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) e che la successione, in mancanza di disposizioni testamentarie, era regolata dalla legge; rilevavano che i beni rientranti nell’eredita’ della de cuius erano costituiti dai seguenti immobili: la meta’ di un appartamento, con annesso garage, sito in (OMISSIS), e tre terreni, di cui due gia’ venduti dagli eredi, i quali avevano consensualmente diviso il ricavato; precisavano che nell’asse ereditario, a seguito dell’obbligo di collazione, doveva confluire anche un terreno ubicato in Contrada (OMISSIS) donato da (OMISSIS) alla figlia (OMISSIS) con atto pubblico del (OMISSIS). Chiedevano dunque procedersi alla divisione previa imputazione del fondo oggetto di donazione alla massa ereditaria.

(OMISSIS), nel costituirsi, deduceva, tra altro, che il terreno era stato da lei venduto al prezzo di Lire 15.000.000 e che il valore dello stesso andava calcolato considerandone la destinazione agricola, per come esistente al momento della donazione.

Il Tribunale di Catania dichiarava aperta la successione legittima di (OMISSIS), rilevando che unici eredi della stessa erano le parti in causa; rigettava la domanda di divisione sul presupposto che l’immobile ubicato in (OMISSIS) era da considerarsi abusivo e che gli attori non avevano prodotto la certificazione di cui alla L. n. 47 del 1985, articolo 35.

La sentenza veniva impugnata da (OMISSIS) e (OMISSIS) i quali producevano nuovi documenti e chiedevano procedersi alla divisione ereditaria.

L’appellata resisteva eccependo l’inammissibilita’ della produzione documentale; chiedeva accertarsi l’impossibilita’ di procedere alla divisione e rilevava che, anche per una interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 745 c.c., il valore del fondo oggetto di collazione andava determinato con riferimento al tempo della donazione, senza tener conto della diversa destinazione urbanistica che lo stesso presentava al momento dell’apertura alla successione.

La Corte di appello di Catania, in riforma della sentenza impugnata, disponeva lo scioglimento della comunione ereditaria e attribuiva a (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) la quota di un terzo ciascuno della meta’ dell’appartamento e della rimessa siti in (OMISSIS); condannava poi l’appellata a versare a (OMISSIS) e (OMISSIS) la somma di Euro 14.389,00 ciascuno oltre interessi legali; condannava infine l’appellata al pagamento delle spese del grado.

Ricorre per cassazione contro detta pronuncia (OMISSIS), la quale fa valere sei motivi di impugnazione illustrati da memoria. Resistono con controricorso, pure seguito da memoria, (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), benche’ ritualmente intimato, non ha svolto attivita’ processuale nella presente sede.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo di ricorso l’istante lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 47 del 1985, articoli 17, 31, 35 e 40, nonche’ dell’articolo 345 c.p.c., u.c.; denuncia altresi’ omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. La doglianza investe la produzione documentale che i controricorrenti hanno operato in grado di appello: tale documentazione consiste, anzitutto, nel certificato del Comune di (OMISSIS) del (OMISSIS) (da cui risulta: che il fondo su cui insiste il fabbricato ubicato in (OMISSIS) non e’ gravato da vincoli di inedificabilita’ assoluta; che e’ stata integralmente corrisposta la somma dovuta per oblazione e oneri accessori; che nulla osta al rilascio della concessione edilizia in sanatoria); la produzione ha inoltre ad oggetto la domanda di concessione edilizia in sanatoria presentata da (OMISSIS) il (OMISSIS) e le ricevute del versamento, eseguito da (OMISSIS) il (OMISSIS), delle somme dovute a titolo di oblazione e di oneri accessori. Rileva l’istante che nessuna concessione in sanatoria era stata rilasciata con riferimento all’immobile oggetto di causa e che la certificazione prodotta non poteva ritenersi equivalente alla documentazione prescritta dalla L. n. 47 del 1985, articolo 17; deduce altresi’ che l’istanza di sanatoria non si estendeva all’autorimessa e che non si comprendeva come la Corte di merito avesse potuto affermare che detto locale, pur facendo parte di un edificio costruito in totale difformita’ della licenza edilizia rilasciata il (OMISSIS), potesse ritenersi solo parzialmente difforme rispetto al titolo autorizzatorio. Assume pertanto l’istante che i documenti prodotti non potevano ritenersi indispensabili ai fini della decisione e che, in conseguenza, la loro produzione in grado di appello doveva dichiararsi inammissibile a norma dell’articolo 345 c.p.c., u.c.. Inoltre, in assenza di prova alcuna in ordine alla sopravvenuta regolarizzazione urbanistica, mediante rilascio della relativa concessione in sanatoria da parte del Comune, la Corte di merito non avrebbe potuto procedere ad alcuno scioglimento giudiziale della comunione ereditaria. I ricorrenti estendono poi le loro argomentazioni al rilievo per cui la nullita’ prevista dalla L. n. 47 del 1985, articolo 17, concernerebbe anche lo scioglimento della comunione ereditaria, da ritenersi atto inter vivos, come tale colpito dalla nominata invalidita’.

Il motivo va disatteso.

Esso si basa sulla contestazione quanto all’ammissibilita’ e alla rilevanza della produzione documentale attuatasi in fase di gravame e pertinente alla concessione in sanatoria dell’immobile sito in (OMISSIS). La Corte di merito ha ritenuto che la documentazione, la quale poteva avere ingresso in fase di appello a norma dell’articolo 345 c.p.c., comma 3, comprovasse la sanatoria e che quindi non sussistesse ostacolo a che la divisione ereditaria potesse aver corso.

Si osserva, tuttavia, che la detta divisione non e’ condizionata dalla regolarizzazione urbanistica dell’immobile di cui trattasi. Infatti, la nullita’ prevista dalla L. n. 47 del 1985, articolo 17, con riferimento a vicende negoziali relative a beni immobili privi della necessaria concessione edificatoria, tra le quali sono da ricomprendere anche gli atti di “scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti”, deve ritenersi limitata ai soli “atti tra vivi”, rimanendo esclusa, quindi, tutta la categoria degli atti mortis causa, e di quelli non autonomi rispetto ad essi tra i quali si deve ritenere compresa anche la divisione ereditaria, quale atto conclusivo della vicenda successoria (Cass. 28 novembre 2001, n. 15133); lo stesso principio e’ poi da affermare con riferimento alla nullita’ comminata dall’articolo 40 della stessa Legge (Cass. 1 febbraio 2010, n. 2313). Ne discende che nemmeno la divisione giudiziale del compendio ereditario possa ritenersi subordinata al conseguimento, da parte di condividenti, del titolo di regolarizzazione urbanistica.

Alla stregua di tale rilievo officioso, la questione prospettata perde tutta la sua rilevanza.

Per completezza, mette comunque conto di rilevare che all’immobile, secondo quanto dedotto dalla stessa ricorrente, e’ applicabile, in ragione dell’epoca della sua costruzione, la L. n. 47 del 1985, articolo 40, non gia’ l’articolo 17 (pag. 19 del ricorso). Ne discende che trova applicazione dell’articolo 40, comma 2, che reputa sufficiente l’allegazione, all’atto divisionale, di copia della domanda di concessione in sanatoria, munita degli estremi dell’avvenuta presentazione e l’indicazione degli estremi dell’avvenuto versamento delle prime due rete dell’oblazione. La documentazione prodotta in fase di appello e’ dunque conforme a quanto richiesto dalla legge.

Col secondo mezzo la sentenza impugnata e’ censurata per violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.. Si assume che l’impugnata pronuncia era illegittima nella parte in cui disponeva lo scioglimento della comunione ereditaria nonostante l’espressa dichiarazione degli appellanti, formulata all’udienza del 16 gennaio 2012, di voler rimanere comproprietari dei beni relitti nell’ipotesi di ritenuta ammissibilita’ della domanda di divisione ereditaria, posto che la suddetta divisione avrebbe potuto attuarsi soltanto mediante vendita all’incanto della meta’ indivisa dell’appartamento e del garage. In particolare, il giudice dell’impugnazione avrebbe dovuto intendere l’affermazione per cui gli appellanti intendevano rimanere comproprietari del bene come rinunzia degli all’azione di stessi divisione ereditaria.

Il quarto mezzo e’ rubricato come violazione e falsa applicazione degli articoli 720, 725 e 352 c.p.c., nonche’ come omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia. Sostiene la ricorrente che la Corte di Catania aveva mancato di procedere allo scioglimento della comunione ereditaria costituita da 50% dell’appartamento e dell’autorimessa ubicati in (OMISSIS), non avendo disposto ne’ l’attribuzione congiunta, con l’addebito dell’eccedenza degli immobili anzidetti, in favore di (OMISSIS) e (OMISSIS), ne’ la vendita all’incanto degli stessi, applicando, erroneamente, il diverso meccanismo dei prelevamenti di cui all’articolo 725 c.c.. D’altro canto, l’istanza di attribuzione congiunta non avrebbe potuto essere formulata oltre l’udienza di precisazione delle conclusioni.

I due motivi, che risultano connessi e si prestano a una trattazione unitaria, non appaiono fondati.

L’articolo 720 c.c., ammette l’assegnazione dell’intero immobile, non comodamente divisibile, a piu’ coeredi che ne abbiano fatto richiesta congiunta. Va osservato, in proposito, che lo scioglimento della comunione ereditaria non e’ incompatibile con il perdurare di uno stato di comunione ordinaria rispetto a singoli beni gia’ compresi nell’asse ereditario in divisione (Cass. 23 febbraio 2007, n. 4224): quando infatti siano state compiute le operazioni divisionali, dirette ad eliminare la maggior parte delle varie componenti dell’asse ereditario, indiviso al momento dell’apertura della successione, la comunione residuale sui beni ereditari si trasforma in comunione ordinaria (Cass. 15 febbraio 2010, n. 3470; Cass. 9 gennaio 2007, n. 215; Cass. 6 maggio 2005, n. 9522).

Poiche’, dunque, la volonta’ dei condividenti di ottenere la proprieta’ indivisa di un immobile che e’ parte del compendio ereditario non contraddice l’intendimento di porre fine alla comunione ereditaria, e’ privo di fondamento l’assunto secondo cui la Corte di appello, a fronte della dichiarazione di (OMISSIS) e (OMISSIS) di restare comproprietari dell’immobile ubicato in (OMISSIS), avrebbe dovuto prendere atto che gli stessi avevano rinunciato all’azione di divisione ereditaria.

La pronuncia impugnata ha quindi correttamente disposto nel senso dell’attribuzione del cespite ai coeredi che ne avevano fatto richiesta, a norma dell’articolo 720 c.c..

Per il resto, mette conto di osservare che, in tema di giudizio di divisione, la richiesta di attribuzione di beni determinati puo’ essere proposta per la prima volta in appello, poiche’ attiene alle modalita’ di attuazione dello scioglimento della comunione e non costituisce domanda in senso proprio (Cass. 14 agosto 2012, n. 14521; Cass. 28 maggio 2008, n. 14008; Cass. 11 giugno 2007, n. 13654). In particolare, la richiesta di assegnazione integra una mera specificazione di una pretesa rivolta a porre fine allo stato di comunione, che e’ ammissibile, in appello, ove si correli alla domanda di divisione che sia stata gia’ introdotta in giudizio (Cass. 28 maggio 2008, n. 14008 cit., in motivazione). Vero e’ che, ove sia mancata la tempestiva attivazione del contraddittorio su di una tale richiesta di assegnazione, imputabile alla parte, tardivamente attivatasi oltre il limite della precisazione delle conclusioni, il giudice non e’ tenuto a esaminare specificamente la deduzione di parte, sicche’ la richiesta di attribuzione e’ inammissibile se formulata soltanto con la comparsa conclusionale del giudizio di secondo grado, e, quindi, al di fuori di ogni possibilita’ di discussione nel contraddittorio tra le parti (cosi’ Cass. 14 agosto 2012, n. 14521). Ma e’ altrettanto vero che nella fattispecie e’ stata la stessa Corte di merito – nel quadro di un mutato convincimento circa l’accoglibilita’ della domanda di divisione, rigettata in prime cure – a sollecitare gli appellanti ad un chiarimento circa la loro volonta’ di restare comproprietari dell’immobile: chiarimento che e’ stato reso in udienza, a seguito di rimessione della causa sul ruolo. Non vi e’ dunque ragione per escludere che la richiesta di assegnazione congiunta da parte degli odierni controricorrenti sia inammissibile: per un verso, infatti, tale richiesta e’ stata formulata a seguito del doveroso attivarsi officioso dell’organo giudicante, che era tenuto a verificare se procedere alla vendita all’incanto del bene (soluzione, questa, che, come e’ noto, costituisce rimedio residuale cui ricorrere quando nessuno dei condividenti voglia giovarsi della facolta’ di attribuzione dell’intero: per tutte, Cass. 13 maggio 2010, n. 11641); per altro verso, la richiesta e’ stata formulata in una fase processuale in cui il potere delle parti non era limitato alla mera illustrazione, attraverso gli scritti conclusionali, delle deduzioni gia’ svolte, posto che la richiesta degli appellanti avrebbe potuto essere discussa dalle parti nel quadro del contraddittorio che l’udienza assicurava.

Corretto appare, inoltre, il criterio adottato dalla Corte di merito nel dar corso alla collazione per imputazione: nell’impossibilita’ di far luogo a un conferimento in natura, il giudice del gravame ha proceduto al prelevamento, in favore degli eredi non donatari, della quota spettante all’erede donataria sul cespite di (OMISSIS): il che ha comportato, come conseguenza, che conformemente alla previsione normativa, l’odierna ricorrente abbia riversato nella massa, ma solo idealmente (attraverso l’incremento delle quote dei controricorrenti, e a scapito della propria), parte dell’equivalente pecuniario del bene ad essa donato (il cui residuo e’ stato poi oggetto di regolamentazione attraverso conguagli in denaro). Va osservato, al riguardo, che, nell’ipotesi in cui il relictum sia costituito da un unico bene, prelevamenti vadano operati stralciando da quest’ultimo la quota corrispondente al valore dei beni oggetto del conferimento per imputazione: infatti, la mancanza nell’asse ereditario di beni della stessa natura di quella che sono stati conferiti, a titolo di collazione, dagli eredi donatari non in natura, ma per imputazione, non esclude il diritto al prelevamento da parte degli eredi non donatari; tale prelevamento a norma dell’articolo 725 c.c., si forma solo per quanto possibile con oggetti della stessa natura e qualita’ di quelli non conferiti in natura (Cass. 17 ottobre 1961, n. 2184).

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 746, 747, 748, 749 e 769 c.c., nonche’ omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia. La censura investe la statuizione della pronuncia impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il valore del bene donato dovesse essere determinato secondo il suo stato giuridico al tempo della successione e, pertanto, quale bene edificabile. Osserva la ricorrente che, affinche’ si ristabilisca la proporzione delle quote ereditarie proprie di ciascuno dei condividenti, il coerede donatario sarebbe tenuto a conferire la massa ereditaria solo il valore rappresentato dall’effettivo arricchimento di cui egli ha goduto a seguito della liberalita’. Per effetto dell’accoglimento del criterio adottato dalla Corte di appello, invece, gli eredi non donatari verrebbero a giovarsi, nella determinazione delle loro quote ereditarie, di un aumento del valore del cespite, connesso alla sopravvenuta acquisizione della sua natura edificatoria, di cui la ricorrente non aveva mai beneficiato: sicche’ la collazione avrebbe finito per produrre, in maniera irragionevole e contrariamente al suo scopo, una ingiusta locupletazione dei controricorrenti a discapito dell’istante. Sul coerede donatario verrebbero in definitiva a gravare quegli incrementi di valore del bene intervenuti successivamente alla sua alienazione e legati ad evenienze imprevedibili o fortuite: il che confliggerebbe, oltretutto, con la volonta’ espressa dal de cuius. Del resto, se le migliorie, quali incrementi di valore del fondo, devono essere scomputate dal valore dell’immobile donato anche se apportare da un terzo rispetto al donatario, poteva ragionevolmente concludersi che la sopravvenuta edificabilita’ del terreno e il conseguente incremento del valore che in esso si esprime, rappresentasse proprio una miglioria.

Con il sesto motivo e’ dedotta l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 747 c.c., per contrasto con l’articolo 3 Cost.. La questione di costituzionalita’ e’ prospettata con riferimento all’interpretazione del cit. articolo 747, secondo cui il coerede donatario sarebbe sempre comunque assoggettato al rischio di mutamenti inerenti alla natura materiale e giuridica del bene ricevuto che siano intervenuti in epoca precedente all’apertura della successione. Tale interpretazione della norma produrrebbe, infatti, secondo l’istante, il trattamento omogeneo di situazioni differenziate, riguardanti, da un lato, il caso in cui il donatario non alieni l’immobile, optando per la conservazione dello stesso fino al momento dell’apertura del successione e, dall’altro, l’ipotesi in cui quel soggetto decida, invece, di trasferire quello stesso bene a terzi.

Anche tali motivi possono essere esaminati congiuntamente.

Il fondo oggetto di collazione fu venduto da (OMISSIS) nel 1984, allorquando aveva destinazione agricola, per un importo di Lire 15.000.000; al momento dell’apertura della successione, nel (OMISSIS), esso era divenuto edificabile ed il suo valore e’ stato stimato dal consulente tecnico nominato in corso di causa in ragione di Euro 108.000,00.

La Corte di merito ha osservato che la collazione dovesse avvenire per imputazione, mediante conferimento nell’asse ereditario, a carico dell’appellata, oggi ricorrente, del valore del terreno donatole dal padre, da determinare con riguardo al momento dell’apertura della successione: infatti – ha spiegato – il coerede donatario aliena a proprio rischio ove ceda il bene oggetto della collazione prima di quel momento. Ha precisato che il conferimento in natura o per imputazione integra un’ipotesi di obbligazione alternativa fondata sul presupposto della sostanziale equivalenza delle prestazioni: equivalenza che verrebbe ad essere alterata ove a fronte dell’impossibilita’ della prima per preventiva scelta dell’obbligato, alla seconda consegua un’utilita’ minore per gli altri legittimari, quando invece la finalita’ della collazione e quella di assicurare, tendenzialmente, una parita’ di trattamento nei reciproci rapporti dei coeredi.

Cio’ posto, stante l’alienazione del bene, la collazione non poteva avvenire che per imputazione.

Stabilisce l’articolo 747 c.c., che la collazione per imputazione si fa avuto riguardo al valore dell’immobile al tempo del aperta successione.

La collazione per imputazione costituisce una fictio iuris, per effetto della quale il coerede che, a seguito di donazione operata in vita dal de cuius, abbia gia’ anticipatamente ricevuto una parte dei beni a lui altrimenti destinati solo con l’apertura della successione, ha diritto a ricevere beni ereditari in misura ridotta rispetto agli altri coeredi, tenuto conto del valore di quanto precedentemente donatogli: valore determinato al detto momento dell’apertura della successione, senza che i beni oggetto della collazione tornino materialmente e giuridicamente a far parte della massa ereditaria, incidendo i medesimi esclusivamente nel computo aritmetico delle quote da attribuire ai singoli coeredi secondo la misura del diritto di ciascuno (Cass. 30 luglio 2004, n. 14553, in motivazione; Cass. 27 febbraio 1998, n. 2163).

Se il valore del bene donato va quantificato al momento dell’apertura della successione, non sono pero’ irrilevanti, ai fini del computo del detto valore, i miglioramenti che abbiano interessato l’immobile fino a quel momento. Stabilisce infatti l’articolo 748 c.c., che si deve dedurre a favore del donatario il valore delle migliorie apportate al fondo nei limiti del loro valore al tempo dell’aperta successione. Cio’ significa, in concreto, che il valore del bene al momento dell’apertura della successione debba essere ridotto in ragione del valore delle migliorie apportate al bene. Nel caso di alienazione l’articolo 749 c.c., dispone, poi, che i miglioramenti fatti dall’acquirente vadano computati nei termini indicati.

Le regole poste dagli articoli 748 e 749 c.c. (che riguardano anche le spese straordinarie e deterioramenti occorsi per colpa del donatario, che qui non rilevano) sono comunemente ritenute espressione dei principi generali che reggono il possesso di buona fede (articolo 1150 c.c.) e, piu’ in generale, di quelli in tema di indebito arricchimento. In particolare, il rimborso dei miglioramenti e’ reso necessario dal rilievo per cui non sarebbe ragionevole imporre al donatario di conferire un valore che non e’ riferito all’originaria consistenza della res donata, ma che dipende, piuttosto, da iniziative da lui assunte (nel caso di miglioramenti eseguiti a sua cura e spese) o da interventi di terzi che abbiano inteso favorirlo (nel caso in cui i miglioramenti siano apportati da altri: la giurisprudenza – cfr. Cass. 18 giugno 1981, n. 4009 – infatti riconosce che la norma di cui all’articolo 748 c.c., trovi applicazione anche nel caso di migliorie eseguite da terzi).

Le migliorie di cui agli articoli 748 e 749 c.c., si identificano in quelle opere che si incorporino nel fondo ed aumentino le opere esistenti, ovvero ne migliorino l’efficienza (Cass. 5 ottobre 1974, n. 2621); movendo poi dal rilievo per cui la relazione al libro III del codice civile indica come miglioramenti la liberazione della cosa da pegni, ipoteche, oneri reali, servitu’ (e che si era percio’ ritenuto superfluo riprodurre nel codice l’articolo 546 del progetto della commissione reale che riconosceva al possessore di diritto a indennita’ per le spese fatte per realizzare tali liberazioni), questa S.C. ha identificato una miglioria anche nell’affrancazione del fondo enfiteutico, sempreche’ il donatario provi di avervi provveduto a propria cura e spese (Cass. 23 gennaio 1991, n. 649). E’ escluso, invece, che possano costituire migliorie le vicende che non abbiano alcuna attinenza alle evenienze descritte, come l’acquisizione, da parte del fondo, di una attitudine edificatoria prima mancante. Il mutamento della destinazione urbanistica del fondo non dipende da un’attivita’ del donatario o del terzo che e’ diretta a incrementare il valore del bene: non e’ correlativo a un esborso del donatario o all’arricchimento, corrispondente al valore delle opere realizzate, che il terzo abbia voluto porre in essere in favore di quel soggetto; essa non risponde, quindi, alla finalita’ che sottende il regime dei miglioramenti della res donata.

Vero e’, invece, che tale mutamento della destinazione del bene costituisce una variabile economica da tenere in conto ai fini della stima del bene al momento dell’apertura della successione. Sul punto, questa Corte ha infatti ritenuto che poiche’ ai fini della determinazione della quota di eredita’ riservata al legittimario il valore dell’asse ereditario residuo e dei beni donati in vita dal de cuius va calcolato al momento dell’apertura della successione, anche l’inizio di un procedimento di trasformazione urbanistica e’ di per se’ sufficiente ad incidere sul valore di mercato di un immobile compreso nell’area oggetto dello strumento urbanistico (Cass. 24 novembre 2009, n. 24711).

D’altro canto, la soluzione indicata da parte ricorrente conduce alla inaccettabile conseguenza per cui, a fronte di un medesimo fatto (il mutamento della destinazione urbanistica del fondo), la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilita’ del donatario, e il valore del bene al netto dell’incremento determinato dalla sopraggiunta vocazione edificatoria del fondo, nel caso in cui questo sia stato invece alienato.

Rimane quindi confermato che, anche nell’ipotesi di alienazione del bene – il quale abbia subito un incremento di valore per effetto di una destinazione edificatoria insussistente al momento del trasferimento – il bene debba essere stimato, ai fini della collazione, facendo riferimento al momento in cui si apre la successione.

Ne’ e’ fondata la questione di costituzionalita’ oggetto del sesto motivo. La violazione del principio di eguaglianza non sussiste, dal momento che l’alienazione del fondo (situazione che l’istante lamenta essere associata nel medesimo trattamento normativo riservato alla conservazione del bene da parte del donatario) e’ vicenda che dipende da una evenienza estrinseca e occasionata dalla libera scelta dell’interessato. Va qui rammentato che non danno luogo a un problema di costituzionalita’ le disparita’ derivanti da circostanze contingenti e accidentali, riferibili non alla norma considerata nel suo contenuto precettivo, ma semplicemente alla sua concreta applicazione (C. cost. 13 giugno 1997, n. 175).

D’altra parte, il donatario, nel cedere l’immobile, accetta il rischio delle modificazioni del prezzo di mercato che possano determinarsi prima dell’apertura della successione (modificazioni che, oltretutto, nel caso in esame, erano apprezzabili al momento della vendita: cfr. sentenza impugnata, pag. 6).

I due motivi vanno quindi disattesi.

Il quinto motivo reca la seguente titolazione: illegittimita’ della decisione impugnata in ordine al regolamento delle spese di giudizio. La ricorrente si limita a osservare come l’illegittimita’ della sentenza impugnata e la sua conseguente cassazione comportino la caducazione del capo di decisione relativo le spese.

Non si tratta, a ben vedere, di un vero e proprio motivo, in quanto esso non contiene alcuna censura, ma si risolve nell’affermazione di una conseguenza che deriva dalla cassazione della sentenza.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 5.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.