Cassazione civile, Ordinanza,  22 novembre 2023 n. 32512 

…omissis…

considerato che

con sentenza resa in data 24/09/2020, la Corte d’appello di Roma ha confermato la decisione con la quale il giudice di primo grado ha rigettato la domanda proposta dall'(OMISSIS) s.p.a. ((OMISSIS)) per la condanna del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti al pagamento, in proprio favore, del credito asseritamente gia’ vantato nei confronti del Ministero convenuto dalla (OMISSIS) S.p.A. ( (OMISSIS) s.p.a.) e da quest’ultima ceduto pro-soluto in favore della (OMISSIS);

a fondamento della decisione assunta, la corte territoriale ha rilevato come il credito rivendicato dalla (OMISSIS) non fosse in concreto mai sorto neppure in capo alla societa’ cedente (nelle more fallita), poiche’, in base alle pattuizioni negoziali originariamente intercorse con il Ministero delle Infrastrutture dei Trasporti, i contraenti avevano condizionato, in deroga all’articolo 1665, comma 5, c.c., l’insorgenza di tale credito alla definitiva consegna e presa in carico, da parte dell’amministrazione statale, dei beni oggetto dell’appalto;

nel caso di specie, non essendo mai avvenute tali consegna e presa in carico (viceversa realizzate solo in progresso di tempo, a seguito della stipulazione di un accordo con un diverso raggruppamento temporaneo di imprese), il credito della (OMISSIS) (ceduto alla (OMISSIS)) doveva ritenersi oggettivamente insussistente;

avverso la sentenza d’appello, l'(OMISSIS) s.p.a. propone ricorso per cassazione sulla base di sei motivi d’impugnazione;

il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti non ha svolto difese in questa sede;

(OMISSIS) s.p.a., in qualita’ di incorporante di (OMISSIS) s.p.a., ha depositato memoria.

ritenuto che

con il primo motivo, la societa’ ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’articolo 1665, comma 5, c.c. (in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente affermato che il patto contrario previsto dal comma 5 dell’articolo 1665 c.c. consente alle parti di condizionare, non gia’ la sola esigibilita’ del credito della stazione dell’appaltatore per il pagamento del compenso dei beni accettati dalla stazione appaltante, bensi’ la sua stessa esistenza;

con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli articoli 1376, 1665, 1453 e 1460 c.c. (in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte d’appello illegittimamente sostenuto che l’inadempimento della societa’ appaltatrice (cedente del credito dedotto nel presente giudizio), consistente nella mancata consegna dei beni oggetto dell’appalto, avrebbe comportato l’automatica inesistenza del suo diritto al pagamento del compenso e, dunque, del credito ceduto al factor;

entrambi i motivi – congiuntamente esaminabili per ragioni di connessione – sono infondati;

osserva il Collegio come l’articolo 1665 c.c. sia specificamente destinato a regolare le modalita’ di verifica e di pagamento dei corrispettivi relativi al contratto di appalto, stabilendo che “l’appaltatore ha diritto al pagamento del corrispettivo” quando l’opera e’ accettata dal committente, salvo diversa pattuizione o uso contrario;

secondo l’interpretazione sostenuta dall’odierna societa’ ricorrente, l’espressione “diritto al pagamento del corrispettivo” non alluderebbe al condizionamento dell’insorgenza del diritto di credito al fatto dell’accettazione dell’opera da parte del committente (“salvo diversa pattuizione o uso contrario”), significando esclusivamente la volonta’ del legislatore di regolare il tempo del pagamento di un credito gia’ sorto, ossia attribuendo all’accettazione del committente la sola funzione di rendere esigibile’ un credito gia’ preesistente;

la diversa pattuizione o l’uso contrario di cui al comma 5 dell’articolo 1665 c.c. finirebbe, conseguentemente, per riguardare unicamente il potere negoziale delle parti (o il riconoscimento dell’efficacia di una contraria consuetudine) di stabilire diversi termini del pagamento, e non gia’ quello di condizionare la stessa insorgenza del diritto dell’appaltatore di pretendere il pagamento dei propri corrispettivi;

ritiene, al contrario, il Collegio come l’espressione legislativa secondo cui “l’appaltatore ha diritto al pagamento del corrispettivo” quando l’opera e’ accettata dal committente, non possa essere letta nel senso preteso dall’odierna societa’ ricorrente, atteso che, costituendo l’accettazione del committente un evento futuro e incerto, della stessa se ne debba inevitabilmente considerare la dimensione di condizione sospensiva, piuttosto che risolutiva, del diritto al pagamento del corrispettivo;

in breve, ferma la non esercitabilita’ (salvo diversa pattuizione o uso contrario) del diritto al pagamento dell’appaltatore prima dell’accettazione dell’opera da parte del committente, nel caso in cui la ridetta accettazione dovesse mancare, l’interpretazione incline ad attribuire a tale evenienza il significato di una condizione risolutiva del credito finirebbe coll’imporre la considerazione del credito dell’appaltatore alla stregua di un diritto soggettivo gia’ sorto e definito, e solo risolto’ dalla mancata accettazione del committente; e cio’, in corrispondenza di un momento in relazione al quale neppure sarebbe stata oggettivamente verificata l’effettiva consistenza dell’adempimento dell’appaltatore sotto il profilo dell’avvenuta soddisfazione dell’interesse creditorio;

rispetto a tale interpretazione (sostenuta dall’odierna ricorrente), assai piu’ ragionevole (e, peraltro, giuridicamente corretta) deve ritenersi la ricostruzione secondo cui il diritto dell’appaltatore al conseguimento delle somme contrattualmente pattuite deve intendersi sorto, nella pienezza della sua efficacia, solo in corrispondenza del momento in cui la stazione appaltante manifesti in modo inequivocabile, con l’accettazione dell’opera, la soddisfazione del proprio interesse sostanziale dedotto in contratto: prima di tale accettazione, infatti, la circostanza che l’appaltatore abbia adempiuto in modo esatto (con la conseguente insorgenza del proprio credito al corrispettivo) rimane un fatto ancora inevitabilmente e irriducibilmente indeterminato e incerto;

da tali premesse segue di necessita’ l’interpretazione dell’articolo 1665, comma 5, c.c. alla stregua di una disciplina destinata a regolare il compimento dell’integrale fattispecie costitutiva (e, soprattutto, dei co-elementi di efficacia) del diritto di credito e, dunque, l’esistenza stessa del credito dell’appaltatore nella pienezza della sua efficacia, con la conseguente attribuzione, all’accettazione della stazione appaltante, della qualificazione di condizione sospensiva del diritto soggettivo dell’appaltatore al conseguimento del corrispettivo;

tale scelta interpretativa, del resto, risulta confermata dall’esame della giurisprudenza di legittimita’, in cui risulta ripetutamente affermato che, nei contratti di appalto, l’obbligazione del committente di pagare il corrispettivo sorge, a mente dell’articolo 1665, ultimo comma c.c., soltanto all’esito dell’accettazione dell’opera (accettazione che, negli appalti di opere pubbliche, puo’ ritenersi avvenuta soltanto all’esito del collaudo dell’opera stessa), a nulla rilevando che, prima di tale momento, l’appaltatore abbia messo a disposizione del committente il risultato della sua prestazione (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13075 del 3/10/2000, Rv. 540691 – 01);

piu’ in generale (e verosimilmente in termini ragionevolmente sovrapponibili al caso in esame) si e’ ritenuto che, in tema di appalto, il diritto dell’appaltatore al corrispettivo sorge con l’accettazione dell’opera da parte del committente (articolo 1665, ultimo comma, c.c.) e non gia’ al momento stesso della stipulazione del contratto. Ne consegue che, ove l’appaltatore abbia ceduto il proprio credito (futuro) e successivamente fallisca nel corso dell’esecuzione dell’opera, il cessionario non ha diritto al credito per il corrispettivo maturato per l’opera gia’ compiuta, nei limiti dell’utilita’ della stessa ed in proporzione all’intero prezzo pattuito, ove l’appaltante ceduto non l’abbia in precedenza accettata nei confronti dell’imprenditore in bonis, non potendo neppure invocarsi gli effetti dello scioglimento del contratto di cui all’articolo 1672 c.c., operando essi in base ad un’impossibilita’ assoluta ed oggettiva della prestazione in se’, mentre nello scioglimento a seguito di fallimento dell’appaltatore (articolo 81 L.F.) rileva un evento di natura personale (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 21599 del 21/10/2010, Rv. 614723 – 01);

in conclusione, se l’articolo 1665 c.c. subordina all’accettazione del committente l’esistenza stessa del credito dell’appaltatore (nella pienezza della sua efficacia), ben possono le parti subordinare, nell’esercizio della propria autonomia negoziale (fatta salva dal comma 5 del richiamato articolo 1665), la nascita di quel diritto di credito al diverso evento della consegna e presa in carico dei beni oggetto dell’appalto, in contrasto con quanto erroneamente sostenuto attraverso la proposizione delle censure in esame;

con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli articolo 1362, 1363 e 1366 c.c. (in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente affermato che le clausole del contratto di appalto concluso tra il Ministero convenuto e la (OMISSIS) s.p.a. avrebbero differito al momento della consegna della fornitura, non gia’ il solo termine di pagamento corrispettivi dovuti dall’amministrazione statale, bensi’ la stessa esistenza del credito dell’appaltatore;

il motivo e’ infondato; ferme le argomentazioni sin qui esposte in corrispondenza alla decisione del primo motivo di impugnazione, osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimita’, l’interpretazione degli atti negoziali debba ritenersi indefettibilmente riservata al giudice di merito e sia censurabile in sede di legittimita’ unicamente nei limiti consentiti dal testo dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, ovvero nei casi di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 3;

in tale ultimo caso, peraltro, la violazione denunciata chiede d’essere necessariamente dedotta con la specifica indicazione, nel ricorso per cassazione, del modo in cui il ragionamento del giudice di merito si sia discostato dai suddetti canoni, traducendosi altrimenti la ricostruzione del contenuto della volonta’ delle parti in una mera proposta reinterpretativa in dissenso rispetto all’interpretazione censurata; operazione, come tale, inammissibile in sede di legittimita’ (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 17427 del 18/11/2003, Rv. 568253);

nel caso di specie, l’odierna ricorrente si e’ limitata ad affermare, in modo inammissibilmente apodittico, il preteso tradimento, da parte dei giudici di merito, della comune intenzione delle parti (ai sensi dell’articolo 1362 c.c.), nonche’ la scorrettezza dell’interpretazione complessiva attribuita ai termini dell’atto negoziale (ex articolo 1363 c.c.), oltre alla violazione dei canoni interpretativi della buona fede (articolo 1366 c.c.), orientando l’argomentazione critica rivolta nei confronti dell’interpretazione della corte territoriale, non gia’ attraverso la prospettazione di un’obiettiva e inaccettabile contrarieta’, a quello comune, del senso attribuito ai testi e ai comportamenti negoziali interpretati, o della macroscopica irrazionalita’ o intima contraddittorieta’ dell’interpretazione complessiva dell’atto (cosi’ come della rilevabilita’ ictu oculi di un’interpretazione contraria a buona fede del contratto), bensi’ attraverso l’indicazione degli aspetti della ritenuta non condivisibilita’ della lettura interpretativa criticata, rispetto a quella ritenuta preferibile, in tal modo travalicando i limiti propri del vizio della violazione di legge (ex articolo 360 c.p.c., n. 3) attraverso la sollecitazione della corte di legittimita’ alla rinnovazione di una non consentita valutazione di merito;

sul punto, e’ appena il caso di rilevare come la corte territoriale abbia proceduto alla lettura e all’interpretazione delle dichiarazioni negoziali in esame nel pieno rispetto dei canoni di ermeneutica fissati dal legislatore, non ricorrendo ad alcuna attribuzione di significati estranei al comune contenuto semantico delle parole, ne’ spingendosi a una ricostruzione del significato complessivo dell’atto negoziale in termini di palese irrazionalita’ o intima contraddittorieta’ (sulla base di un’ipotetica lettura macroscopicamente contraria ai canoni della buona fede), per tale via giungendo alla ricognizione di un contenuto negoziale sufficientemente congruo, rispetto al testo interpretato, e del tutto scevro da residue incertezze, si’ da sfuggire integralmente alle odierne censure avanzate dai ricorrenti in questa sede di legittimita’;

con il quarto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. e dell’articolo 115 c.p.c. (in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale illegittimamente assunto come dimostrata la circostanza che la societa’ appaltatrice (cedente il credito) non avesse regolarmente consegnato alla stazione appaltante i beni oggetto dell’appalto;

il motivo e’ inammissibile;

osserva il Collegio come la ricorrente, nel censurare la violazione degli articoli 2697 c.c. e 115 c.p.c., si sia limitata alla mera rivendicazione di una rilettura nel merito dei fatti di causa e delle prove sulla base di una prospettiva critica non consentita in sede di legittimita’;

a tale riguardo, e’ appena il caso di rilevare come le censure illustrate dalla ricorrente non contengano alcuna denuncia del paradigma dell’articolo 2697 c.c. e di quello degli articoli 115 c.p.c., limitandosi a denunciare unicamente una pretesa erronea valutazione di risultanze probatorie;

sul punto, varra’ rimarcare il principio fatto proprio dalle Sezioni Unite di questa corte di legittimita’, ai sensi del quale la violazione dell’articolo 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioe’ attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’articolo 115 c.p.c. e’ necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioe’ abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioe’ dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioe’ giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilita’ di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso articolo 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si puo’ ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attivita’ consentita dal paradigma dell’articolo 116 c.p.c., che non a caso e’ rubricato alla “valutazione delle prove” (cfr. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018, Rv. 650892 – 01);

con il quinto motivo, la societa’ ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli articoli 1180 e 1264 c.c. (in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale illegittimamente affermato che il credito della societa’ appaltatrice (cedente il credito), (e dunque il credito del factor) non sarebbe mai sorto in considerazione dell’avvenuta consegna dei beni oggetto dell’appalto da parte di altro soggetto;

il motivo e’ inammissibile;

osserva il Collegio come la societa’ ricorrente abbia prospettato la censura in esame senza cogliere in modo specifico la ratio individuata dal giudice a quo a sostegno della decisione assunta;

sul punto, varra’ richiamare il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale, il motivo d’impugnazione e’ rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo e’ regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione e’ erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale puo’ considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali e’ esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa e’ errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneita’ al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per cassazione tale nullita’, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, e’ espressamente sanzionata con l’inammissibilita’ ai sensi dell’articolo 366 n. 4 c.p.c. (Sez. 3, Sentenza n. 359 dell’11/01/2005, Rv. 579564 – 01);

nella specie, avendo la corte territoriale disatteso la domanda della societa’ ricorrente sul presupposto della mancata venuta ad esistenza del credito dell’appaltatore in conseguenza del mancato verificarsi dell’evento della consegna e della presa in carico dei beni oggetto dell’appalto (evento al quale le stesse parti contrattuali avevano condizionato l’insorgenza del diritto al pagamento del corrispettivo), l’odierna censura della ricorrente, nel riproporre la questione della consegna dei beni oggetto dell’appalto ad opera di un terzo soggetto, dimostra di non essersi punto confrontato con la decisione impugnata, avendo la corte territoriale richiamato la circostanza della consegna ad opera di terzi al solo scopo di confermare (ad colorandum) l’inesistenza ab origine del credito della societa’ appaltatrice, proprio perche’ non fu quest’ultima a realizzare la consegna e la successiva presa in carico dei beni oggetto dell’appalto da parte della committente; da tanto derivando la conseguente inammissibilita’ della censura in esame per le specifiche ragioni in precedenza indicate;

con il sesto motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’articolo 112 c.p.c. (in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale illegittimamente omesso di affrontare i motivi dedotti in sede di gravame dalla societa’ appellante con riferimento agli effetti del fallimento della societa’ appaltatrice (cedente il credito) sul trasferimento del credito oggetto dell’odierna lite;

il motivo e’ infondato;

osserva il Collegio come, diversamente da quanto sostenuto dall’odierna ricorrente, la corte territoriale non abbia affatto omesso di pronunciarsi sui motivi di gravame concernenti gli effetti del fallimento sul trasferimento del credito oggetto dell’odierna lite, avendo piuttosto affermato come, una volta attestata l’insussistenza del credito della (OMISSIS) s.p.a. verso la pubblica amministrazione, del tutto irrilevante risulta l’analisi degli effetti del fallimento dell’appaltatrice sul trasferimento del credito; e cio’, proprio perche’ tale credito non e’ mai esistito;

da tali premesse deve dedursi l’integrale difetto di rilevanza delle argomentazioni illustrate dalla ricorrente con riguardo alla pretesa natura di credito futuro’ del bene eventualmente posto a oggetto della cessione dedotta;

peraltro, quand’anche si fosse trattato della cessione di un credito futuro, destinato a venire ad esistenza (direttamente nel patrimonio della societa’ cessionaria) una volta verificatasi la condizione cui l’esistenza del credito fu subordinata dalle parti, sarebbe sufficiente replicare come la condizione di esistenza del credito, una volta fallita la societa’ cedente, non si e’ mai piu’ potuta verificare, poiche’ la condizione di esistenza del credito che le parti avevano convenuto era fisicamente consistita nel fatto della consegna e presa in carico delle opere appaltate su iniziativa della medesima (OMISSIS) s.p.a., e non gia’ nella consegna e presa in carico su iniziativa di un qualunque diverso quisque de populo;

sulla base delle premesse sin qui illustrate, rilevata la complessiva infondatezza delle censure esaminate, dev’essere pronunciato il rigetto del ricorso;

non vi e’ luogo per l’adozione di alcuna statuizione, in relazione alle spese del presente giudizio, non avendo il Ministero intimato svolto difese in questa sede;

dev’essere dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della societa’ ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, comma 1-quater, dell’articolo 13.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, comma 1-quater, dell’articolo 13.