Cassazione civile, Ordinanza 28 agosto 2020, n. 18042

Cassazione civile, Ordinanza 28 agosto 2020, n. 18042
(…OMISSIS…)
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

  1. (OMISSIS) conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Padova il fratello (OMISSIS), chiedendo dichiarare l’invalidita’ del testamento pubblico del 15/6/2006, pubblicato in data 20/1/2009, con il quale la defunta (OMISSIS), morta nubile e senza figli, aveva designato quale erede universale il nipote (OMISSIS), trattandosi di testamento sottoscritto da persona incapace di intendere e di volere.
    Per l’effetto chiedeva altresi’ che l’eredita’ fosse devoluta ex lege con il riconoscimento della qualita’ di erede universale, attesa l’indegnita’ del convenuto che aveva indotto la zia con dolo a testare in suo favore; in via subordinata chiedeva dichiararsi la comunione tra le parti sui beni relitti, procedendosi al relativo scioglimento.
    In un separato giudizio (OMISSIS) conveniva anche il notaio (OMISSIS), nonche’ (OMISSIS), al fine di ottenere i danni non richiesti nel primo giudizio, nonche’ il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Padova, (OMISSIS) e (OMISSIS), proponendo querela di falso nei confronti della donazione – divisione del 9/6/2006 redatta dal notaio convenuto, assumendo che in realta’ i testimoni non fossero rimasti presenti per tutta la redazione dell’atto.
    Chiedeva altresi’ di annullare la donazione per incapacita’ di intendere e di volere della (OMISSIS), che nell’atto rivestiva la qualita’ di donataria, reiterando le domande gia’ avanzate nel primo giudizio con la condanna del notaio e degli altri convenuti al risarcimento dei danni.
    Si costituivano i convenuti che resistevano alla domanda, ed in via riconvenzionale chiedevano il risarcimento del danno derivante dalla condotta dell’attore.
    Riunite le due cause, il Tribunale adito, con la sentenza n. 2439 del 20/5/2014, rigettava le domande attoree.
    Avverso tale sentenza proponeva appello (OMISSIS) e la Corte d’Appello di Venezia con la pronuncia n. 1680 del 20/7/2016 ha rigettato il gravame.
    Quanto alla capacita’ naturale della de cuius alla data del testamento, la sentenza di appello rilevava che era onere dell’attore dimostrare che al momento dell’atto la testatrice fosse priva in modo assoluto della capacita’ di autodeterminarsi, atteso che non emergeva che la stessa fosse affetta da incapacita’ totale e permanente in epoca prossima alla data dell’atto.
    Ne derivava che il capitolato di prova dell’attore non era idoneo a fornire la dimostrazione delle condizioni per l’invalidita’ del testamento ex articolo 591 c.c..
    Del pari infondate erano le censure avverso la valutazione della documentazione versata in atti, che invece era stata puntualmente analizzata dal Tribunale.
    In particolare la certificazione medica prodotta, e recante una data prossima a quella dell’atto impugnato, non consentiva di affermare che la de cuius fosse gia’ a quella data del tutto incapace, come confermato anche dell’esito dell’esame disposto sulla defunta dal giudice tutelare nell’ambito della procedura volta alla nomina dell’amministratore di sostegno. Sebbene emergesse una difficolta’ della defunta a distinguere i due nipoti, tuttavia nel testamento pubblico la designazione del convenuto come erede universale era inequivoca ed accompagnata anche dall’indicazione delle ragioni della scelta, il che confortava il giudizio di intrinseca coerenza della scheda testamentaria.
    Inoltre, non essendo necessaria la puntuale indicazione dei beni attribuiti per testamento, la previsione di una disposizione a favore dell’anima deponeva del pari per il fatto che la testatrice non avesse una mente del tutto obnubilata.
    La conclusione sino a quel momento raggiunta trovava poi conforto anche nell’esito della CTU espletata in corso di causa, dalla quale si ricavava che nel periodo in cui era stato redatto il testamento, sebbene la testatrice fosse affetta da una demenza con componente vascolare, tuttavia la riduzione della capacita’ poteva avere importanti e repentine oscillazioni ma comunque non tali da annullare la capacita’ di testare, essendo stata offerta anche una descrizione del quadro evolutivo della patologia che non permetteva di poter affermare con certezza che al momento del testamento la (OMISSIS) non fosse in possesso della capacita’ naturale.
    Cio’ comportava quindi che fosse onere dell’attore dimostrare che effettivamente la de cuius era incapace alla data del 15/6/2006, e cio’ anche in considerazione del quadro clinico caratterizzato da repentine modificazioni di alcune aree cerebrali e non di altre.
    Passando ad esaminare la querela di falso proposta avverso la donazione – divisione, nella quale l’appellante ricopriva la veste di donante, la Corte d’Appello evidenziava che la querela si fondava sul fatto che le testi non fossero state presenti all’atto per buona parte del tempo, il che rendeva l’atto stesso radicalmente nullo.
    Ma l’invalidita’ doveva essere correlata con il tipo di attestazione fatta dal notaio rogante.
    Nella specie il notaio Aprico aveva attestato che le testi, (OMISSIS) e (OMISSIS), erano presenti e che l’atto era stato letto alla loro presenza, che lo avevano confermato insieme alle parti provvedendo anche alla sottoscrizione in calce e a margine.
    A tali formalita’ l’appellante non aveva fatto cenno nella citazione introduttiva della querela di falso e d’altronde mai il notaio aveva affermato di una presenza continuativa delle due testimoni (requisito non strettamente necessario una volta che, prima dell’apposizione delle firme, e’ stata data lettura integrale dell’atto alla loro presenza).
    Andava del pari confermato il rigetto della domanda di indegnita’ a succedere del convenuto, il che quindi portava al rigetto integrale dell’impugnazione.
    Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso (OMISSIS) sulla base di quattro motivi.
    (OMISSIS) resiste con controricorso.
    Gli altri intimati non hanno svolto difese in questa fase. Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimita’ dell’udienza.
  2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli articoli 428, 587 e ss. e 591 c.c., in relazione ai punti 11 e 12 della sentenza gravata laddove si e’ ritenuto che ai fini dell’invalidita’ del testamento dell’incapace naturale non sia sufficiente una semplice anomalia o alterazione delle capacita’ psichiche ed intellettive del testatore, ma un’infermita’ transitoria o permanente ovvero una diversa causa perturbatrice che privi in modo assoluto il soggetto della coscienza dei propri atti ovvero della capacita’ di autodeterminarsi.
    Si deduce che l’incapacita’ di cui all’articolo 591 c.c., che rimanda alla previsione generale di cui all’articolo 428 c.c., non deve essere tale da annullare in modo assoluto ogni facolta’ cognitiva o volitiva del testatore, essendo sufficiente che sia privo della coscienza del significato dei propri atti.
    Cio’ quindi impone di ritenere che non vi possa essere una sovrapposizione della nozione di incapacita’ naturale con la condizione invece richiesta per la declaratoria di interdizione. Inoltre la capacita’ di intendere e di volere deve essere graduata in relazione al fatto che il testamento e’ un atto negoziale per il quale si richiede una volonta’ piena e consapevole, poiche’ solo la presenza di questa e’ idonea a determinare il contenuto e gli effetti del regolamento di interessi.
    Il motivo e’ infondato.
    In tal senso, va richiamato il principio per cui (cfr. Cass. n. 2702/2019) in tema di testamento pubblico, lo stato di sanita’ mentale del testatore, seppure ritenuto e dichiarato dal notaio per la mancanza di segni apparenti di incapacita’ del testatore medesimo, puo’ essere contestato con ogni mezzo di prova, senza necessita’ di proporre querela di falso, poiche’, ai sensi dell’articolo 2700 c.c., l’atto pubblico fa piena prova delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, ma nei limiti della sola attivita’ materiale, immediatamente e direttamente richiesta, percepita e constatata dallo stesso pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.
    Tuttavia, una volta posta tale premessa, al fine di evidenziare come ben fosse possibile addivenire alla prova dell’effettiva incapacita’ della testatrice ai sensi della previsione di cui all’articolo 591 c.c., n. 3, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi reiteratamente affermati da questa Corte, ed ai quali il Collegio intende dare continuita’.
    Infatti, anche di recente e’ stato affermato che (Cass. n. 25053/2018) in tema di annullamento del testamento, nel caso di infermita’ tipica, permanente ed abituale, l’incapacita’ del testatore si presume e l’onere della prova che il testamento sia stato redatto in un momento di lucido intervallo spetta a chi ne afferma la validita’, qualora, invece, detta infermita’ sia intermittente o ricorrente, poiche’ si alternano periodi di capacita’ e di incapacita’, non sussiste tale presunzione e, quindi, la prova dell’incapacita’ deve essere data da chi impugna il testamento.
    Quanto invece alla consistenza che deve avere l’incapacita’ ai fini dell’invalidita’ dell’atto, e’ stato ribadito che (Cass. n. 3934/2018) l’incapacita’ naturale del testatore postula l’esistenza non gia’ di una semplice anomalia o alterazione delle facolta’ psichiche ed intellettive del “de cuius”, bensi’ la prova che, a cagione di una infermita’ transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volonta’, della coscienza dei propri atti o della capacita’ di autodeterminarsi (in senso conforme si veda anche Cass. n. 27351/2014; Cass. n. 9081/2010).
    La decisione gravata risulta essersi conformata a tali principi avendo pertanto appurato, con valutazione tipicamente in fatto, e come tale incensurabile in questa sede, che le condizioni di salute della testatrice, sebbene connotate da una patologia potenzialmente idonea a determinare un’incapacita’ naturale della de cuius nel senso sopra indicato, non erano pero’ a carattere permanente, non potendosi quindi escludere che fosse del tutto elisa la capacita’ di autodeterminazione al momento del testamento, sicche’, in applicazione della suddetta regola di riparto dell’onere della prova, incombeva all’attore la dimostrazione che al momento del testamento le capacita’ psico – intellettive della (OMISSIS) fossero tali da escludere del tutto la capacita’ di autodeterminazione.
  3. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’articolo 2697 c.c., in relazione ai punti 11, 12. 13, 14, 15, 16, 17, 18 e 19 della sentenza gravata.
    Si deduce che la Corte d’Appello nel confermare la decisione di primo grado avrebbe indebitamente invertito la regola dell’onere della prova.
    Nella fattispecie era sufficiente dimostrare la sensibile riduzione della capacita’ della testatrice, riduzione che peraltro emergeva dalla copiosa documentazione medica in atti.
    Si richiama il contenuto della scheda SVAMA (Scheda per la valutazione multidimensionale dell’anziano) redatta dal medico di famiglia nel novembre del 2005, che gia’ evidenziava una demenza senile della (OMISSIS).
    Cio’ trovava conforto nel ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno della defunta, nel quale si faceva parimenti riferimento all’incedere della demenza senile, nonche’ al certificato medico del 15 maggio 2006 del Dott. (OMISSIS) che connotava il quadro clinico per la presenza di fenomeni di disorientamento temporale, amnesia, acalculia, deficit attentivo e turbe prassiche.
    Inoltre si sollecita una diversa considerazione degli esiti della CTU che conferma le condizioni per la declaratoria di invalidita’ del testamento.
    Anche tale motivo deve essere rigettato.
    In disparte il rilievo che la maggior parte delle argomentazioni del ricorrente parte dal presupposto, sconfessato a seguito del rigetto del primo motivo, secondo cui la valutazione della capacita’ di intendere e di volere andrebbe intesa in maniera meno rigorosa di quanto invece sostenuto dalla giurisprudenza di questa Corte, vale ricordare che la violazione dell’articolo 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioe’ attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni.
    Nella fattispecie invece risulta evidente dalla formulazione del motivo come, lungi dal denunciarsi un’effettiva inversione dell’onere della prova, si solleciti una diversa rivalutazione del materiale probatorio, sul presupposto che quella offerta dal giudice di appello (in maniera conforme a quanto ritenuto dal Tribunale) non sia appagante, esito questo pero’ precluso in sede di legittimita’.
    Occorre, infatti, richiamare il principio per il quale (Cass. n. 23900/2016) quando un giudizio – come quello sulla capacita’ di intendere e di volere della persona defunta (al fine di valutarne la capacita’ di testare) – deve necessariamente risultare dall’esame coordinato di numerosi elementi, l’adeguatezza della motivazione del giudice del merito deve essere vagliata con riferimento all’insieme degli stessi nonche’ alle difese delle parti; peraltro, l’eventuale silenzio della motivazione su taluni dei predetti elementi non puo’ essere considerato omesso esame di punti decisivi qualora, nel suo complesso, il giudizio risulti adeguatamente e concretamente giustificato e non si possa affermare che, senza quel silenzio, la decisione avrebbe potuto essere diversa (in senso conforme Cass. n. 2407/1981).
    Nella vicenda in esame, la Corte d’Appello ha fondato il proprio convincimento su di una valutazione complessiva del materiale probatorio, avvalendosi della documentazione medica versata in atti nonche’ degli esiti della CTU, pervenendo con una valutazione coerente e logica a ritenere non dimostrata l’incapacita’ naturale della testatrice.
    In tal senso ha tratto argomenti a conforto della propria conclusione anche dal tenore del testamento, e cio’ in conformita’ con quanto affermato da questa Corte secondo cui (Cass. n. 8690/2019) ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno della capacita’ di intendere e di volere del “de cuius” al momento della redazione del testamento, il giudice del merito non puo’ ignorare il contenuto dell’atto di ultima volonta’ e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serieta’, normalita’ e coerenza delle relative disposizioni, nonche’ ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate. Nell’ambito di tale valutazione, il dato clinico, comunque necessario, costituisce uno degli elementi su cui il giudice deve basare la propria decisione, non potendosi mai prescindere dalla considerazione della specifica condotta dell’individuo e della logicita’ della motivazione dell’atto testamentario (conf. Cass. n. 230/2011).
    Il dato clinico documentale e’ stato apprezzato dalla Corte distrettuale, e non rileva la diversa lettura che ne offre il ricorrente o la mancata considerazione di alcuni dei documenti, alla luce di quanto sopra esposto circa la necessita’ di una valutazione complessiva del quadro probatorio.
    Ne’ assume portata decisiva la circostanza che per la de cuius fosse stata proposta istanza per la nomina dell’amministratore di sostegno, occorrendo far richiamo a quanto affermato da questa Corte circa il fatto che (Cass. n. 12460/2018) in tema di amministrazione di sostegno, il giudice tutelare puo’ prevedere d’ufficio, ex articolo 405 c.c., comma 5, nn. 3 e 4, e articolo 407 c.c., comma 4, sia con il provvedimento di nomina dell’amministratore, sia mediante successive modifiche, la limitazione della capacita’ di testare o donare del beneficiario, ove le sue condizioni psico-fisiche non gli consentano di esprimere una libera e consapevole volonta’, essendo tuttavia esclusa la possibilita’ di estendere in via analogica l’incapacita’ di testare, prevista per l’interdetto dall’articolo 591 c.c., comma 2, al beneficiario dell’amministrazione di sostegno (in senso conforme da ultimo Corte Cost. n. 114/2019, in riferimento alla capacita’ di donare del beneficiario dell’amministrazione di sostegno).
    Ne’ appare in ogni caso possibile sussumere la censura articolata dal ricorrente nella novellata previsione di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e cio’ in considerazione del fatto che vertendosi in un’ipotesi di cd. doppia conforme, la deducibilita’ del vizio de quo risulta preclusa per effetto della previsione di cui all’articolo 348 ter c.p.c., u.c., applicabile ratione temporis (trattasi di sentenza emessa all’esito di giudizio di appello introdotto in data successiva al 12 settembre 2012).
  4. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 132 c.p.c. e articolo 111 Cost., comma 6, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nonche’ l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
    Si deduce che, a fronte della querela di falso promossa dal ricorrente nei confronti dell’atto di donazione del 9/6/2006, nel quale aveva assunto la veste di donante in favore della defunta, e precisamente contestandosi la fidefacienza dell’atto nella parte in cui il notaio rogante aveva dichiarato che i due testimoni erano stati presenti alla redazione dell’atto stesso, la Corte d’Appello ha escluso l’ammissibilita’ della querela sulla scorta di una motivazione del tutto incomprensibile.
    Si legge, infatti, nella decisione impugnata che il ricorrente si era lamentato del fatto che le testi non fossero state presenti “per buona parte dell’atto”, ma che tale affermazione non si confrontava con l’attestazione del notaio che aveva invece dato atto che le testi erano presenti e che l’atto era stato letto e poi sottoscritto sempre alla loro presenza.
    La motivazione non tiene pero’ conto della circostanza che con la querela si voleva mettere in discussione anche la veridicita’ dell’attestazione circa la presenza delle testi al momento della lettura dell’atto e della sottoscrizione.
    Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2013, articoli 47 e 48, articolo 51, comma 1, n. 8 e articolo 58, comma 1, n. 4 (legge notarile).
    Si deduce che a nulla rileva che nell’atto il notaio non abbia attestato una presenza continuativa delle testi.
    Infatti, rilevato che per l’atto oggetto di causa la presenza dei testimoni e’ obbligatoria e necessaria per tutto il periodo di tempo in cui viene formato l’atto pubblico di donazione, non e’ sufficiente che le testi fossero presenti solo al momento della lettura dell’atto e della sua sottoscrizione, imponendosi invece una presenza costante a partire dal momento della manifestazione di volonta’ delle parti interessate e sino alla finale sottoscrizione.
    I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati nei termini di cui alla motivazione che segue.
    Rilevata l’inammissibilita’ ai sensi dell’articolo 348 ter, u.c., della denuncia del vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, coglie nel segno quanto osservato dal giudice di appello, che ha riscontrato l’inammissibilita’ della querela (finalizzata appunto a privare l’atto pubblico della sua portata fidefaciente, in merito anche alle attestazioni rese dal pubblico ufficiale), valorizzato la circostanza che il notaio avesse attestato la presenza delle testimoni la presenza delle testimoni al momento della lettura dell’atto e della sua sottoscrizione, affermazione che assicurava la validita’ formale dell’atto, e che non risultava adeguatamente contrastata dalle richieste istruttorie di cui alla querela di falso.
    Non ignora il Collegio come la questione relativa all’individuazione delle attivita’ per le quali sia imposta la necessaria presenza dei testimoni, ai sensi del combinato disposto degli articoli 47, 48 e 50 e 58, sia oggetto di contrasto in dottrina, essendo tuttavia assolutamente prevalente la tesi che ritiene imprescindibile la loro presenza al momento della lettura dell’atto ed quello della sottoscrizione.
    A tale soluzione ha peraltro aderito anche la risalente giurisprudenza di questa Corte (Cass. 28/4/1939 n. 1463), che ha disatteso la diversa conclusione per la quale, una volta affermata l’obbligatorieta’ della presenza dei testimoni, la stessa debba essere assicurata per tutta la durata dello stesso rogito, ritenendo il Collegio di dover assicurare continuita’ alla propria, pur risalente, giurisprudenza.
    Ne deriva che la soluzione del giudice di appello appare incensurabile laddove ha rilevato l’idoneita’ della querela a fornire l’effettiva prova della nullita’, e quindi la decisivita’ della stessa, una volta che, non palesandosi necessaria, per quanto detto la presenza continuativa dei testi, se non in relazione all’attivita’ di lettura dell’atto e di sottoscrizione, la capitolazione di prova di parte ricorrente, come riportata in ricorso (“Vero che le due testimoni (…) dichiarate presenti il giorno della stipula dell’atto datato 9.6.06 (…) non rimasero e non furono sempre presenti, ma anzi lo furono solo per un breve lasso di tempo”), ove anche dimostrasse la non veridicita’ dell’attestazione del pubblico ufficiale con riferimento alla presenza continuativa delle testimoni, non e’ idonea pero’ a comprovare la loro assenza al momento in cui se ne impone, come detto, la presenza, a pena di nullita’ dell’atto pubblico.
    I motivi devono quindi essere rigettati.
  5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo nei rapporti con il controricorrente.
    Nulla a provvedere quanto alle parti che non hanno svolto difese in questa fase.
  6. Poiche’ il ricorso e’ stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed e’ rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilita’ 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
    P.Q.M.
    Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;
    Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso articolo 13, articolo 1 bis.