Cassazione civile, Sentenza 28 settembre 2018, n. 23442
(…omissis…)
FATTI DI CAUSA
(OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno agito in giudizio nei confronti della (OMISSIS) S.p.A., della (OMISSIS) S.p.A. e del Comune di YYYYYY per ottenere il risarcimento dei danni subiti da un immobile di loro proprieta’, e dai beni mobili che si trovavano all’interno di esso, a seguito di un allagamento proveniente dal cantiere aperto per la realizzazione di una bretella stradale, i cui lavori erano stati appaltati dal comune alla (OMISSIS) S.p.A. e da questa subappaltati alla (OMISSIS) S.p.A.. La domanda e’ stata accolta dal Tribunale di Treviso solo nei confronti della impresa appaltatrice e della subappaltatrice. La Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha ridotto l’importo riconosciuto agli attori a titolo di risarcimento (da Euro 72.932,96 ad Euro 58.947,31, oltre accessori), confermando il rigetto della domanda nei confronti del comune committente. Ricorrono ( OMISSIS) e (OMISSIS), nonche’ (OMISSIS), sulla base di cinque motivi. Resiste con controricorso il comune di YYYYYY. Non hanno svolto attivita’ difensiva in questa sede le societa’ intimate. Il ricorso e’ stato inizialmente trattato in camera di consiglio, in applicazione dell’articolo 375 c.p.c. e articolo 380-bis c.p.c., comma 1: il pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte ai sensi dell’articolo 380-bis c.p.c., comma 1 chiedendo “l’accoglimento del quinto motivo del ricorso (indicato come secondo motivo n. 4 in ricorso)” ed “il rigetto di tutti gli altri motivi di ricorso”, ed i ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’articolo 380-bis c.p.c., comma 1. Il collegio ha disposto la trattazione in pubblica udienza (inizialmente fissata per il 26 febbraio 2018 e poi differita alla data odierna), in vista della quale anche il comune controricorrente ha depositato memoria difensiva ai sensi dell’articolo 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “nullita’ della sentenza per violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, avendo il giudice di secondo grado accolto l’appello incidentale sulla mancanza di svalutazione dell’immobile per un motivo diverso da quello versato in giudizio con l’impugnazione della sentenza di primo grado – violazione articolo 112 c.p.c. – articolo 360, n. 4”. Con il secondo motivo del ricorso si denunzia “inammissibilita’ degli appelli incidentali relativi all’errato riconoscimento del risarcimento in primo grado del danno per deprezzamento dell’immobile per violazione del principio della tempestiva contestazione delle risultanze della CTU e conseguente nullita’ della sentenza di secondo grado sul punto – violazione degli articoli 195, 210, 345 e 112 c.p.c. – articolo 360 c.p.c., n. 3 e articolo 360 c.p.c., n. 4”. Con il terzo motivo del ricorso si denunzia “violazione del principio dell’integrale risarcimento del danno – articoli 2056, 1223 e 1227 c.c. – articolo 360, n. 3”. Con il quarto motivo del ricorso si denunzia “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti, ossia che l’immobile che e’ stato danneggiato dall’allagamento per un’altezza di due metri avra’ un sicuro danno futuro in quanto danneggiato nel suo intrinseco valore – articolo 360 c.p.c., n. 5”. I primi quattro motivi di ricorso – con i quali si censura la sentenza di appello nella parte in cui ha ridotto l’importo del risarcimento riconosciuto agli attori in primo grado, con specifico riguardo al presunto danno da deprezzamento commerciale del loro immobile – sono connessi e possono essere esaminati congiuntamente. Essi sono infondati. Con le censure espresse nei motivi di ricorso in esame i ricorrenti sostengono che la corte di appello avrebbe interpretato erroneamente la sentenza di primo grado e la consulenza tecnica di ufficio cui la stessa si richiama. A loro avviso, mentre il tribunale aveva correttamente riconosciuto il risarcimento del danno da deprezzamento commerciale del loro immobile in virtu’ di due distinte e autonome ragioni (e cioe’ sia perche’ l’immobile “danneggiato e ripristinato” avrebbe un valore inferiore a quello integro, sia per la negativa pubblicita’ conseguente all’evento dannoso), i giudici di appello non avevano preso in considerazione tali ragioni. La suddetta interpretazione della decisione di primo grado non trova pero’ riscontro negli atti. In primo luogo, si deve osservare che le due pretese rationes decidendi certamente non potrebbero considerarsi autonome e, da sole, entrambe in grado di sostenere la decisione, in quanto quella relativa al danno “materiale” (che si assume insito ed ineliminabile, per il fatto stesso dell’avvenuto ripristino dei danni subiti dall’immobile) al piu’ avrebbe potuto riguardare il solo piano seminterrato, ma certamente non i piani fuori terra, non danneggiati dall’acqua e per i quali e’ stato invece comunque riconosciuto un deprezzamento del 2%. In ogni caso, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, sta di fatto che sia il tribunale che la corte di appello hanno ritenuto che il consulente tecnico di ufficio avesse riconosciuto un certo deprezzamento commerciale dell’immobile esclusivamente per la notorieta’ che aveva avuto l’episodio dell’inondazione, ma non per i danni materiali che esso aveva subito, i quali sono stati, in realta’, completamente eliminati con le opere di ripristino (il cui importo economico e’ stato separatamente calcolato), salvo alcuni possibili dettagli ai quali non e’ in sostanza stato attribuito alcun concreto rilievo (in tal senso va inteso, dunque, il passo della relazione di consulenza in cui il tecnico si esprime come segue: “Inteso il repentino intervento di eliminazione di quell’acqua limacciosa e con residui oleosi, e’ molto improbabile che si ripropongano postumi alle finiture, salvo possibili minime efflorescenze dovute a residui dell’umidita’ su tinteggiature ed intonaci e contropareti esterne del piano interrato”; il senso sostanziale di queste affermazioni – richiamate dalla sentenza di primo grado – e’ effettivamente quello ritenuto dalla corte di appello, e cioe’ quello per cui i lavori di ripristino avevano eliminato il danno, e i possibili minimi postumi erano di fatto trascurabili e privi di rilievo economico). La corte territoriale, dunque, nel ritenere la sentenza di primo grado come fondata – in conformita’ alle risultanze della consulenza tecnica di ufficio – esclusivamente sulla seconda delle argomentazioni indicate dai ricorrenti (e cioe’ la negativa pubblicita’ derivante dalla notorieta’ dei fatti accaduti), ne ha dato una interpretazione del tutto corretta. Chiarito quanto sopra, risultano in primo luogo infondate le eccezioni di carattere processuale di cui ai primi due motivi del ricorso, in quanto: a) non e’ ravvisabile nella decisione impugnata alcuna violazione dell’articolo 112 c.p.c.; per quanto riferiscono gli stessi ricorrenti, le societa’ convenute avevano impugnato la sentenza di primo grado con specifico riguardo all’avvenuto riconoscimento del danno per il deprezzamento dell’immobile, negando che sussistesse tale danno, e avevano in proposito sostenuto che le opere di ripristino avrebbero eliminato ogni pregiudizio e riportato l’immobile al suo originario valore, senza alcun deprezzamento; la corte di appello ha riconosciuto fondati tali assunti, escludendo altresi’ un danno da deprezzamento dell’immobile per la negativa pubblicita’ derivante dalla notorieta’ dell’inondazione, e quindi implicitamente – ma inequivocabilmente – affermando che le opere di ripristino avrebbero restituito all’immobile integralmente il suo valore originario; b) non e’ ravvisabile alcuna violazione degli articoli 195, 201 e 345 c.p.c. (e ancora 112) per non essere state tempestivamente contestate nel corso del giudizio di primo grado le affermazioni contenute nella relazione del consulente tecnico con riguardo al danno da deprezzamento; vengono qui in rilievo valutazioni tecniche di un ausiliario del giudice e non allegazioni relative a specifici fatti operate da una parte, e quindi certamente con riguardo ad esse non e’ possibile ritenere applicabile il principio di non contestazione; del resto, le valutazioni del consulente assumono rilievo decisivo nella controversia solo una volta che siano eventualmente fatte proprie dal giudice in sede di decisione, e nella specie la decisione e’ stata tempestivamente e specificamente impugnata con riguardo alla voce di danno in esame; dunque l’appello incidentale delle societa’ appaltatrici, in relazione alla questione del riconoscimento di un danno per il presunto deprezzamento commerciale dell’immobile, era certamente ammissibile. Neanche sono fondati i motivi di ricorso di carattere sostanziale: a) la dedotta violazione degli articoli 1223, 1227 e 2056 c.c. (posta a base del terzo motivo) certamente non sussiste, in quanto la corte di appello non ha escluso in astratto la possibile risarcibilita’ del danno da deprezzamento commerciale dell’immobile, ma, al contrario, ha escluso in fatto tale deprezzamento, senza affatto negare che in diritto esso sarebbe stato risarcibile, se effettivamente ricorrente; b) non sussiste neanche il dedotto omesso esame di un fatto decisivo controverso, per quanto osservato in precedenza: non e’ vero che la corte di appello abbia omesso di tener conto del deprezzamento derivante dai danni materiali subiti dall’immobile nonostante le opere di ripristino; al contrario, conformandosi a quanto affermato dal consulente tecnico di ufficio, essa ha ritenuto che tale danno non sussistesse affatto e che le opere di ripristino avessero restituito all’immobile integralmente il suo valore originario, salvo l’eventuale deprezzamento connesso alla negativa pubblicita’ derivante dalla notorieta’ dell’allagamento che aveva provocato i danni, deprezzamento che pero’, diversamente da quanto ritenuto dallo stesso consulente tecnico di ufficio, ha escluso, in base ad un apprezzamento di fatto adeguatamente motivato e quindi incensurabile nella presente sede (e in realta’ neanche specificamente e adeguatamente censurato nel ricorso). 2. Con il quinto motivo del ricorso si denunzia “violazione del principio secondo il quale il committente, ancorche’ ente pubblico, e’ responsabile per culpa in vigilando qualora la pericolosita’ dell’opera per l’omessa adozione delle misure di sicurezza sia evidente e prevedibile – violazione del principio della prova – Decreto del Presidente della Repubblica n. 554 del 1999, articoli 125, 127, 133 e 157, articoli 2043, 2050 e 2051 c.c. e articolo 116 c.p.c. – articolo 360, n. 3”. Il motivo e’ fondato, nei limiti che si illustreranno. 2.1 La questione di diritto che viene posta con la censura in esame e’ quella dei presupposti necessari per affermare la responsabilita’ del committente per i danni subiti da terzi nel corso dell’esecuzione di un appalto di lavori edili, con particolare riguardo all’appalto di opere pubbliche. Nella specie, la corte di appello, pur avendo accertato la responsabilita’ delle imprese appaltatrici, ha escluso ogni responsabilita’ dell’ente committente per i danni subiti dai ricorrenti. Ha ritenuto infatti che: a) non potesse essere affermata una responsabilita’ del comune ai sensi dell’articolo 2051 c.c., in quanto l’affidamento del cantiere alle imprese appaltatrici non consentiva di ritenere in capo allo stesso configurabile il rapporto di custodia in relazione alla cosa che aveva arrecato il danno, che e’ presupposto di applicazione della disposizione; b) nemmeno potesse essere affermata una responsabilita’ dell’ente committente ai sensi dell’articolo 2050 c.c., perche’ l’attivita’ pericolosa non era svolta da questo, ma dalle imprese appaltatrici; c) la stessa possibilita’ di affermare un concorso nella responsabilita’ dell’appaltatore ai sensi dell’articolo 2043 c.c. fosse impedita, essendo “in fatto, la situazione…… obiettivamente incerta”, e mancando, in particolare, la prova della dedotta sospensione dei lavori su ordine del comune, con la conseguenza che era in sostanza impossibile stabilire se vi fosse effettivamente una diretta responsabilita’ di quest’ultimo. 2.2 Va premesso, in linea generale, che e’ consolidato l’indirizzo di questa Corte in base al quale, in caso di danni arrecati a terzi nel corso di esecuzione di un appalto di lavori edili: a) di regola risponde nei confronti dei terzi esclusivamente l’appaltatore, in quanto questi svolge in piena autonomia la sua attivita’; b) se pero’ il danneggiato dimostra che il committente si e’ ingerito con specifiche direttive che hanno limitato, sebbene non del tutto escluso, l’autonomia dell’appaltatore, rispondono in concorso sia l’appaltatore che il committente; c) se le direttive e l’ingerenza del committente sono cosi’ specifiche da rendere l’appaltatore un nudus minister, risponde esclusivamente il committente; d) il committente risponde infine anche per culpa in eligendo, laddove si sia avvalso di impresa palesemente inadeguata a svolgere l’attivita’ affidata (cfr., in proposito, ex multis:Cass., Sez. 2, Sentenza n. 1234 del 25/01/2016, Rv. 638645 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6296 del 13/03/2013, Rv. 625507 01; Sez. 3, Sentenza n. 17697 del 29/08/2011, Rv. 619450 01; Sez. 3, Sentenza n. 7356 del 26/03/2009, Rv. 607389 01; Sez. 3, Sentenza n. 24320 del 30/09/2008, Rv. 604765 01; Sez. 3, Sentenza n. 13131 del 01/06/2006, Rv. 590623 01; Sez. 3, Sentenza n. 5133 del 09/11/1978, Rv. 394885 01). D’altra parte, secondo piu’ recenti decisioni in tema di appalti pubblici – per quanto in affermata continuita’ con gli esposti principi tradizionali – gli specifici poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza della pubblica amministrazione nella esecuzione dei lavori, con la facolta’, a mezzo del direttore, di disporre varianti e di sospendere i lavori stessi, ove potenzialmente dannosi per i terzi, escludono ogni esenzione da responsabilita’ per l’ente committente (in proposito si vedano, tra le altre, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13266 del 05/10/2000, Rv. 540762 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 4591 del 22/02/2008, Rv. 601941 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 10588 del 23/04/2008, Rv. 603248 – 01; Sez. 6-3, Ordinanza n. 1263 del 27/01/2012, Rv. 620509 – 01). Ai suddetti orientamenti va certamente data continuita’. Risultano peraltro necessarie alcune precisazioni, per coordinare gli esiti applicativi degli stessi, non sempre consonanti. Ritiene infatti la Corte che vadano chiaramente distinte due diverse questioni: a) quella dell’eventuale concorso del committente nell’attivita’ svolta dall’appaltatore, la quale in astratto abbia causato danni a terzi e sia quindi fonte di generica responsabilita’ ai sensi dell’articolo 2043 c.c.; b) quella della responsabilita’ per i danni causati ai terzi direttamente dalla cosa oggetto dell’appalto, per la quale viene in rilievo la speciale ipotesi di imputazione di responsabilita’ prevista dall’articolo 2051 c.c.. 2.2.1 La responsabilita’ dell’appaltatore per i danni causati a terzi dall’attivita’ svolta da quest’ultimo puo’ essere affermata esclusivamente ai sensi dell’articolo 2043 c.c. (laddove non ricorrano i presupposti di applicabilita’ delle disposizioni di cui all’articolo 2050 c.c.): per questa tipologia di danni la concorrente responsabilita’ del committente potrebbe in teoria affermarsi ai sensi dell’articolo 2049 c.c., ma essa e’ di regola esclusa (secondo un indirizzo del tutto consolidato, al quale va senz’altro data continuita’) dal carattere autonomo dell’attivita’ svolta dall’appaltatore stesso (salvi i casi di ingerenza totale del committente in tale attivita’, o comunque la violazione di specifici obblighi di vigilanza, che peraltro spetta al danneggiato dimostrare, ma che nel caso di specie risultano esclusi in base ad incensurabili accertamenti di fatto svolti sul punto dalla corte di appello, che ha ritenuto non provata la riconducibilita’ del danno ad un difetto di vigilanza da parte dell’ente appaltante). 2.2.2 Invece, per i danni causati direttamente dalla cosa oggetto dell’appalto (anche laddove essa sia stata modificata dall’appaltatore e proprio alle modifiche sia riconducibile il danno) viene in rilievo l’applicazione dell’articolo 2051 c.c.. La questione della responsabilita’ del committente (che sia possessore o proprietario, o comunque abbia la disponibilita’ della cosa oggetto dei lavori commissionati con l’appalto) va pertanto diversamente impostata. Dei danni causati da cose risponde infatti di regola il proprietario o il possessore (o chi comunque si trovi nella materiale disponibilita’ di esse), in virtu’ del rapporto di custodia, salva la prova (a suo carico) del caso fortuito, ai sensi dell’articolo 2051 c.c.. Orbene, il committente, che ne sia proprietario o possessore, resta certamente nel possesso, ed anche nella giuridica detenzione, del bene oggetto dell’appalto (di cui abbia comunque la disponibilita’ materiale, tanto da poterlo consegnare all’appaltatore per l’esecuzione dell’appalto), e ne puo’ disporre, sia giuridicamente che materialmente, conservando sempre il potere di impartire direttive all’appaltatore in merito alle opere da eseguire ed alle modificazioni da apportare allo stesso. L’autonomia di quest’ultimo nello svolgimento della sua attivita’ – che costituisce la ragione per cui in taluni casi e’ stata esclusa la posizione di custode da parte del committente – in realta’ riguarda l’attivita’ da porre in essere per l’esecuzione dell’appalto, non la disponibilita’ e/o la custodia della cosa oggetto dei lavori. Il committente, anche durante lo svolgimento dell’appalto, puo’ infatti sempre disporre della cosa e l’appaltatore non acquista alcun diritto su di essa. In realta’, il committente, che era e resta custode della cosa, esercita tale custodia (che implica, ovviamente, anche l’onere di provvedere alla sua manutenzione, cosi’ come il diritto di operare modificazioni alla stessa, purche’ senza danno per i terzi) anche attraverso l’affidamento di lavori in appalto che la riguardino: ne consegue che l’appalto non esclude affatto la custodia, ma e’, al contrario, un modo di esercizio di quest’ultima. Inoltre, si deve considerare che la ratio che sta alla base dello speciale regime di responsabilita’ di cui all’articolo 2051 c.c. consiste nella tutela dei diritti del soggetto danneggiato, posta oggettivamente a carico del custode della cosa che ha arrecato il danno, con la sola salvezza del fortuito, in coerenza con i valori di solidarieta’ di cui agli articoli 2 e 41 Cost., secondo le coordinate generali dell’interpretazione costituzionalmente orientata del sistema della responsabilita’ civile. Non si puo’ pertanto consentire, di regola, al custode di liberarsi della sua posizione di “garanzia” semplicemente trasferendo contrattualmente tale posizione in capo ad un terzo, senza alcun limite (se non quello, del tutto generico, della cd. culpa in eligendo), e cio’ specie se si tratti del proprietario di un immobile che trasferisca tale posizione di garanzia ad un terzo che non ne e’ proprietario e non offra la stessa solvibilita’. Ammettendo una siffatta possibilita’, si finirebbe per eludere l’effettiva funzione della disciplina della responsabilita’ per i danni causati dalle cose, come delineata dall’articolo 2051 c.c., disciplina che consente l’esonero del custode dalla responsabilita’ per i danni causati dalla cosa solo laddove egli provi il caso fortuito. Con la semplice stipula di un contratto di appalto si verrebbe invece a configurare nella sostanza una ulteriore causa di esonero dalla indicata responsabilita’ oggettiva, molto meno rigorosa dell’unica ipotesi espressamente prevista dalla legge (e cioe’ il caso fortuito), cosi’ elidendo artificiosamente il rigore della regola normativa. Escludere automaticamente la custodia del bene consegnato all’appaltatore da parte del proprietario o possessore committente costituirebbe d’altra parte una petizione di principio o comunque sarebbe una conclusione fondata su un argomento non pertinente (e cioe’ l’autonomia dell’appaltatore, autonomia che riguarda la sua attivita’ di esecuzione dei lavori, non la custodia del bene oggetto dell’appalto). Si consideri che neanche in caso di locazione (contratto che pure attribuisce al conduttore la detenzione dell’immobile locato, e quindi poteri di disponibilita’ materiale sullo stesso maggiori di quelli che spettano all’appaltatore) si ritiene che il locatore cessi di essere custode del bene locato (almeno per le strutture murarie e per gli impianti fissi dell’immobile: cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4737 del 30/03/2001, Rv. 545368 01; Sez. 2, Sentenza n. 13881 del 09/06/2010, Rv. 613244 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16422 del 27/07/2011, Rv. 619571 01; Sez. 3, Sentenza n. 21788 del 27/10/2015, Rv. 637554 01; Sez. 3, Sentenza n. 11815 del 09/06/2016, Rv. 640516 01) Anche sotto questo profilo, si deve concludere che l’appalto di lavori aventi ad oggetto una cosa non fa di per se’ venir meno a carico del committente l’obbligo di custodia sulla stessa e l’obbligo di esercitare il controllo su di essa, sia pure compatibilmente con l’esistenza del contratto di appalto, in modo da impedire che essa produca danni a terzi. Le vicende che riguardano l’utilizzazione della cosa, ed anche l’affidamento ad un appaltatore dell’attivita’ di manutenzione e/o di esecuzione di opere di modifica sulla stessa, rientrano sempre (come e’ ovvio) nell’esercizio dei poteri del custode su di essa, e quindi ne possono escludere la responsabilita’ esclusivamente laddove ricorrano le rigorose condizioni richieste dall’articolo 2051 c.c., e cioe’ sia provato il caso fortuito. Naturalmente cio’ non significa che il committente non potra’ mai essere esonerato dalla responsabilita’ per i danni arrecati a terzi dalla cosa in seguito alle modifiche da questa apportate dall’attivita’ svolta dall’appaltatore, ma esclusivamente che sara’ lui a dover dimostrare che l’attivita’ dell’appaltatore sia di fatto qualificabile come caso fortuito (in particolare sia riconducibile al fatto del terzo rientrante nel fortuito, cioe’ non prevedibile e/o non evitabile), senza potersi limitare ad allegare genericamente che la cosa era stata a quello affidata per l’esecuzione dell’appalto. Va ribadito che qui non si ha riguardo ai danni causati dall’attivita’ dell’appaltatore, ma solo a quelli derivanti direttamente dalla cosa, e cioe’ dall’immobile, eventualmente come modificato dall’appaltatore a seguito dell’esecuzione dei lavori ad esso affidati. In siffatta ipotesi, il committente, per essere esonerato dalla responsabilita’ di cui all’articolo 2051 c.c., dovra’ fornire la prova liberatoria richiesta dalla suddetta norma, e cioe’ quella del caso fortuito. Tale prova potra’ consistere anche nella dimostrazione che il danno e’ causalmente riconducibile esclusivamente al fatto dell’appaltatore, il quale abbia eseguito i lavori ad esso affidati in modo non conforme al contratto ed alle norme, anche tecniche, disciplinanti la sua esecuzione, ma sara’ comunque il committente a dover dimostrare che la condotta difforme dalle regole di diligenza nello svolgimento dell’attivita’ oggetto di appalto posta in essere dall’appaltatore non era ragionevolmente prevedibile ed evitabile (nonostante le adeguate misure di cautela e sicurezza in proposito poste in essere dal committente stesso, anche con riguardo alla scelta dell’appaltatore, all’imposizione allo stesso dell’adozione di condotte di cautela per i terzi, ed al controllo sulla attivita’ da esso svolta, nei limiti di quanto e’ ragionevolmente esigibile), al punto che ad essa possa attribuirsi efficienza causale esclusiva nella verificazione dell’evento dannoso (il tutto in coerenza con i principi di recente ribaditi da questa stessa Corte in tema di responsabilita’ da cose in custodia e in particolare di caso fortuito costituito dalla condotta di terzi e/o dello stesso danneggiato: cfr., di recente: Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 1257 del 19/01/2018, Rv. 647356 – 01; Sez. 3, Ordinanze nn. 2477, 2480, 2481, 2482 del 01/02/2018). Nell’ipotesi in cui terzi subiscano danni direttamente da una cosa di proprieta’ o in possesso (o nella custodia) di un determinato soggetto, interessata da un contratto di appalto, non puo’ quindi ritenersi il danneggiato onerato di dover dimostrare – per ottenere il risarcimento dal proprietario o possessore – che questi avesse scelto un appaltatore inadeguato ovvero che avesse impartito specifiche direttive sull’esecuzione dell’appalto o che comunque disponesse di un potere di controllo assoluto sull’attivita’ dell’appaltatore; al contrario, sara’ il committente – per esonerarsi dalla propria responsabilita’ di custode della cosa, ai sensi dell’articolo 2051 c.c. – a dover dimostrare di avere scelto un appaltatore adeguato, di avergli fornito adeguate direttive e di avere esercitato i suoi poteri di controllo e vigilanza sull’attivita’ dello stesso con la necessaria diligenza, di modo che il danno possa ritenersi causato da una condotta dell’appaltatore non prevedibile e/o evitabile (e quindi in sostanza riconducibile all’ipotesi del caso fortuito costituito dalla condotta del terzo). La indicata ricostruzione, oltre ad essere conforme ai principi costantemente affermati da questa Corte in tema di responsabilita’ da cose in custodia, costituisce altresi’ un equo punto di equilibrio nel bilanciamento tra la necessita’ di un’adeguata tutela del terzo che subisca danni derivanti da una cosa e quella del proprietario o possessore della cosa stessa, che abbia appaltato lavori aventi ad oggetto la suddetta cosa, laddove si consideri che il proprietario o possessore e’ il soggetto in genere piu’ agevolmente identificabile dal danneggiato e piu’ solvibile e che egli potra’ comunque eventualmente rivalersi sull’appaltatore da lui stesso scelto. L’assetto del regime di responsabilita’ appena delineato risulta altresi’ coerente con i gia’ richiamati valori di solidarieta’ di cui agli articoli 2 e 41 Cost., e quindi in linea con le coordinate generali del sistema della responsabilita’ civile, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso. 2.3 Nella specie, la corte di appello ha in realta’ escluso la responsabilita’ del comune committente ai sensi dell’articolo 2051 c.c. (oltre che quella di cui all’articolo 2043 c.c., in relazione alla quale, come gia’ osservato, le censure dei ricorrenti non possono trovare accoglimento) sull’erroneo presupposto per cui l’esistenza di un appalto era di per se’ sufficiente a far venire meno la custodia del bene (salva prova contraria), e non ha verificato invece se la predetta amministrazione committente avesse fornito la prova liberatoria del caso fortuito, su essa gravante ai sensi dell’articolo 2051 c.c. (anche eventualmente in relazione al fatto dell’appaltatore, dimostrando cioe’ che il danno, riconducibile all’attivita’ di quest’ultimo, non poteva essere preveduto e/o evitato). La fattispecie dovra’ pertanto essere riesaminata dalla corte di appello alla luce dei seguenti principi di diritto: “in caso di danni subiti da terzi nel corso dell’esecuzione di un appalto, bisogna distinguere tra i danni derivanti dalla attivita’ dell’appaltatore e i danni derivanti dalla cosa oggetto dell’appalto; per i primi si applica l’articolo 2043 c.c. e ne risponde di regola esclusivamente l’appaltatore (in quanto la sua autonomia impedisce di applicare l’articolo 2049 c.c. al committente), salvo il caso in cui il danneggiato provi la una concreta ingerenza del committente nell’attivita’ stessa e/o la violazione di specifici obblighi di vigilanza e controllo; per i secondi (e cioe’ per i danni direttamente derivanti dalla cosa oggetto dell’appalto, anche se determinati dalle modifiche e dagli interventi su di essa posti in essere dall’appaltatore) risponde (anche) il committente ai sensi dell’articolo 2051 c.c., in quanto l’appalto e l’autonomia dell’appaltatore non escludono la permanenza della qualita’ di custode della cosa da parte del committente; in tale ultimo caso, il committente, per essere esonerato dalla sua responsabilita’ nei confronti del terzo danneggiato, non puo’ limitarsi a provare la stipulazione dell’appalto, ma deve fornire la prova liberatoria richiesta dall’articolo 2051 c.c., e quindi dimostrare che il danno si e’ verificato esclusivamente a causa del fatto dell’appaltatore, quale fatto del terzo che egli non poteva prevedere e/o impedire (e fatto salvo il suo diritto di agire eventualmente in manleva contro l’appaltatore)”. 3. E’ accolto il quinto motivo del ricorso, rigettati i primi quattro. La sentenza impugnata e’ cassata in relazione, con rinvio alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimita’.
P.Q.M.
La Corte: accoglie il quinto motivo del ricorso, rigettati i primi quattro; – cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimita’.