Cassazione civile sentenza 6 giugno 2014 n 12798

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 6 GIUGNO 2014, N. 12798
(…omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 25 gennaio 1994 (OMISSIS) evocava, dinanzi al Tribunale di Venezia, (OMISSIS) e (OMISSIS) e premesso che con testamento olografo del (OMISSIS) (OMISSIS), da lei assistito fino al decesso avvenuto il (OMISSIS), le aveva lasciato la proprieta’ dell’immobile sito in (OMISSIS), che in data 11.6.1993 aveva dovuto rilasciare alle convenute a seguito di pronuncia dello stesso Tribunale di Venezia, adito dalle medesime (OMISSIS), che in accoglimento della loro domanda di accertamento della nullita’ del testamento, le riconosceva quali eredi legittime di (OMISSIS), ne chiedeva la condanna al pagamento delle numerose opere eseguite nell’immobile durante il possesso in buona fede conseguito all’apertura della successione testamentaria alla morte di (OMISSIS) e del corrispettivo per l’assistenza prestata al de cuius, nonche’ al risarcimento dei danni conseguenti all’esecuzione dello sfratto eseguito in suo danno.

Instaurato il contraddittorio, resistevano le (OMISSIS), le quali assumevano che il giudicato formatosi sul rilascio precludeva la pretesa azionata, mancando nell’attrice la situazione di possesso e lo stato soggettivo di buona fede, inoltre spiegavano riconvenzionale per ottenere il pagamento delle spese processuali liquidate nei pregressi giudizi ed il risarcimento dei danni conseguenti all’abusiva occupazione dell’immobile e alla compressione del diritto di sopraelevazione del confinante immobile ad opera della proprietaria di quest’ultimo, (OMISSIS).

Il giudice adito, espletata istruttoria, anche con C.T.U., in accoglimento della domanda attorea, condannava le convenute, in solido, a corrispondere alla (OMISSIS) la somma di euro 23.562,61, oltre ad interessi legali, a titolo di indennita’ per le migliorie apportate all’immobile durante il possesso in buona fede dello stesso, rigettate le domande riconvenzionali in quanto la pretesa rimozione delle opere era preclusa dal combinato disposto degli articoli 535 e 1148 c.c., mentre la richiesta risarcitoria per mancato rilascio era priva del titolo negoziale e comunque non era riconducibile al dettato dell’articolo 1148 c.c..

In virtu’ di rituale appello interposto dalle (OMISSIS), con il quale lamentavano che il giudice di prime cure non avesse ritenuto preclusa la domanda attorea per effetto del giudicato formatosi sulla petizione di eredita’ dalle stesse introdotta e conclusa positivamente, oltre ad avere ritenuto di buona fede il possesso della (OMISSIS), la Corte di appello di Venezia, in parziale accoglimento del gravame, riformava parzialmente la decisione di primo grado, accertava nella misura di euro 23.562,61 il credito dell’appellata per migliorie, determinava in euro 9.136,80 il credito delle appellanti per frutti percepibili dalla appellata a partire dal 31.8.1979 e operata la compensazione tra i rispettivi crediti, compreso quello di euro 1.560,10 per spese processuali liquidate in favore delle appellanti, condannava le (OMISSIS) a corrispondere alla (OMISSIS) l’importo di euro 12.865,71, oltre interessi legali dal 25.1.1994; dichiarava le spese processuali di entrambi i gradi compensate fra le parti per i 4/5, ponendo la restante quota a carico delle appellanti.

A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che il coordinamento dell’articolo 1146 c.c., da un lato, e degli articoli 535 e 533 c.c., dall’altro, portava a ritenere che anche nei rapporti fra l’erede apparente e l’erede riconosciuto giudizialmente si applicavano le disposizioni in materia di possesso per quanto riguardava le restituzioni dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni. Non inficiava detta conclusione la circostanza che l’appellata prima del decesso del de cuius fosse stata, inizialmente, ospite, e, poi, locataria dell’immobile in forza del contratto dalla stessa prodotto (del 30.7.1976), per essere successivamente intervenuto il possesso dello stesso immobile sempre in capo alla (OMISSIS) per effetto della sua istituzione quale erede testamentaria.

Aggiungeva che era cessata la buona fede della appellata soltanto dal momento della proposizione della domanda giudiziale di petizione di eredita’, non anche nella fase precedente, giacche’ l’avere concorso nella causa di nullita’ del testamento (aiutando fisicamente il testatore nella sua redazione, facendo cosi’ venire meno l’autografia) non escludeva la presunzione di buona fede (articolo 1147 c.c., comma 3), non essendo ascrivibile l’ignoranza della nullita’ a colpa grave (articolo 535 c.c., comma 3). Ne’ poteva ritenersi maturata la prescrizione del diritto del possessore all’indennita’ per i miglioramenti, decorrendo detto termine all’atto della restituzione della cosa migliorata ex articolo 2935 c.c., avvenuto nella specie il rilascio dell’immobile in data 11.6.1993, notificato l’atto introduttivo del giudizio il 25.1.1994.

Quanto alla quantificazione dell’indennita’, pur considerando che opere erano tutte successive al venire meno della buona fede, riteneva di commisurarla alle spese sostenute per la loro realizzazione, poiche’ sarebbe stato arduo ipotizzare un miglioramento di valore inferiore al costo delle opere, in alcun modo rivalutato, ed il condono dell’autorimessa ricavata dal rustico precludeva la valorizzazione della pretesa illiceita’ del manufatto. Cio’ escludeva anche l’applicabilita’ alla specie dell’articolo 936 c.c..

Concludeva che il venire meno della buona fede nel possesso dell’attrice faceva sorgere in capo alle appellanti il diritto alla percezione dei frutti dopo la data di introduzione della domanda di petizione ereditaria in data 31.8.1979, a mente dell’articolo 1148 c.c., ult. parte, che venivano riconosciuti in correlazione alla mancata disponibilita’ dell’immobile e quindi ai canoni calcolati secondo i parametri della Legge n. 392 del 1978, dal 31.8.1979 all’11.6.1993; di converso non poteva essere riconosciuto alcun danno dal preteso rifiuto dell’appellata a prestare il consenso al progetto di ampliamento di immobile confinante di proprieta’ di (OMISSIS), non apparendo ipotizzabile la violazione di uno specifico obbligo correlato alla gestione del bene in possesso della (OMISSIS).

Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Venezia agiscono le (OMISSIS), in base a sei motivi, illustrati anche da memoria ex articolo 378 c.p.c., cui replica la (OMISSIS) con controricorso, assistito anche da memoria illustrativa.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo le ricorrenti lamentano la violazione degli articoli 533, 535, 1140, 1146 e 1150 c.c., per avere la corte di merito riconosciuto alla resistente il diritto all’indennita’ prevista dall’articolo 1150 c.c., per le migliorie, riconoscendole la qualita’ di possessore del bene del de cuius, senza tenere conto che ai sensi dell’articolo 1146 c.c., il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione, trasmettendosi istantaneamente ipso iure all’erede vero, senza soluzione di continuita’, a prescindere dal fatto che l’erede apprenda materialmente i beni, essendo condizione necessaria e sufficiente alla trasmissione del possesso all’erede che il de cuius lo avesse in vita. E cio’ per la natura stessa del possesso quale definito dall’articolo 1140 c.c., di potere di fatto corrispondente all’esercizio della proprieta’, che esclude ex se il potere di fatto di altri, come previsto dall’articolo 1146 c.c.. Con la conseguenza che il possesso allegato dalla (OMISSIS) non sussisteva essendo possessori ex articolo 1146 c.c., le eredi (OMISSIS) e senza possesso l’attrice non poteva avere diritto alle migliorie. Ad avviso delle ricorrenti il giudice del gravame avrebbe fatto mal governo degli articoli 533 e 535 c.c., che disciplinano la condizione di chi possiede beni ereditari a titolo di erede o senza titolo, ma non attribuirebbero la qualita’ di possessore a chiunque abbia l’apprensione dei beni ereditari, presupponendo che il possessore dei beni ereditari sia tale secondo le disposizioni dell’articolo 1140 c.c. e ss., per essere l’articolo 1146 c.c., ad attribuire all’erede vero, ope legis, la qualita’ di possessore. Proseguono le ricorrenti che il coordinamento fra gli articoli 533 e 535 c.c., da un lato, e l’articolo 1146 c.c., dall’altra, non puo’ portare a ritenere che l’erede apparente ha il possesso contro l’erede vero che e’ succeduto nel possesso del de cuius, perche’ cio’ comporterebbe la elisione dell’articolo 1146 c.c.. A conclusione del mezzo vengono formulati i seguenti quesiti di diritto: “se ai sensi dell’articolo 1146 c.c., il possesso del bene di cui e’ causa si era trasmesso con effetto dall’apertura della successione alle eredi del de cuius odierne ricorrenti; se ai sensi degli articoli 1140 e 1146, e degli articoli 533 e 535 c.c., essendosi trasmesso il possesso del bene dal de cuius alle odierne ricorrenti, l’attrice in primo grado ne avesse il possesso nella qualita’ allegata di erede apparente del de cuius, con diritto all’indennita’ secondo la previsione dell’articolo 1150 c.c.”.

Con il secondo motivo e’ denunciata la violazione dell’articolo 1141 c.c., in quanto essendo rimasto accertato che l’attrice – in vita il de cuius – aveva la detenzione dell’immobile dapprima a titolo di ospitalita’ e successivamente a titolo di locazione, la corte di merito ne avrebbe dovuto trarre la conseguenza che alla morte del locatore, nella titolarita’ del contratto di locazione erano subentrate le convenute, quali locatrici, per cui la detenzione della conduttrice non poteva mutarsi in possesso e sostituire la conduttrice stessa nel possesso delle locatrici, contro la previsione dell’articolo 1141 c.c., comma 2, il quale stabilisce che il detentore non puo’ acquistare il possesso, se non per il mutamento del titolo per causa proveniente da un terzo o per opposizione fatta contro il possessore, specificando che cio’ vale anche per i successori a titolo universale. A corollario del mezzo e’ posto il seguente quesito di diritto: “se ai sensi dell’articolo 1141 c.c., la detenzione del bene di cui e’ causa esercitata dall’attrice in primo grado alla morte del de cuius, in forza di contratto di locazione, si e’ mutata in possesso per effetto della sua istituzione testamentaria di erede nulla e inefficace”.

I primi due motivi formulati dalle ricorrenti – da trattare congiuntamente per la loro evidente connessione argomentativa – sono destituiti di fondamento e devono, percio’, essere respinti. Nel capo 9A del titolo primo del libro delle successioni, destinato alla petizione di eredita’, e’ disciplinata la possibilita’ dell’erede di agire contro chi possiede i beni ereditari a titolo di erede (che corrisponde al caso in esame, articolo 533 c.c.) o contro i suoi aventi causa (articolo 534 c.c.). La norma successiva stabilisce che le disposizioni in materia di possesso si applicano anche al possessore di beni ereditari, per quanto riguarda la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni.

Occorre quindi fare riferimento agli articoli 1147 e 1148 c.c.: quest’ultimo fa obbligo al possessore di buona fede di rispondere verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia. Va aggiunto, quanto alla buona fede, che secondo l’articolo 1147 c.c. “la buona fede e’ presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto”. Questa disposizione e’ comunemente ritenuta portatrice di un principio di portata generale (Cass. n. 8258 del 1997; Cass. n. 6648 del 2000) e quindi e’ applicabile anche alla fattispecie di cui all’articolo 535 c.c.. Ne consegue che chi agisce per rivendicare i beni ereditari – eventualmente previo annullamento del testamento che ha chiamato all’eredita’ il possessore di buona fede – puo’ pretendere soltanto i frutti indebitamente percepiti, nei limiti fissati dall’articolo 1148 c.c.. Nella specie non risulta (cfr. conclusioni delle appellanti in epigrafe della sentenza impugnata) che sia stata fatta valere la mala fede della resiste – originaria attrice quanto alla percezione dei frutti, ne’ che la mala fede di questa sia stato oggetto del contendere o di iniziativa probatoria volta a superare la presunzione vantata dall’erede testamentaria.

La decisione della Corte d’appello, quindi, risulta avere fatto buon governo dei principi sopra enunciati, poiche’ ritenendo di dovere presumere la buona fede dell’erede testamentaria che si era immessa nel possesso del bene ereditario, ha considerato cessata tale condizione soltanto dal momento della proposizione della domanda giudiziale di petizione di eredita’.

Del resto le censure delle ricorrenti attengono a circostanze che, nell’impianto argomentativo della Corte territoriale, non assumono specifica rilevanza ai fini del decisum, non essendo stata censurata la statuizione relativa all’assenza di colpa grave in epoca antecedente alla introduzione del predetto giudizio, limitandosi a criticare la pronuncia per non avere ritenuto la loro qualita’ di possessori a pieno titolo del bene del de cuius fin dall’apertura della successione, e sono quindi in ammissibilmente dedotte.

Con il terzo motivo e’ dedotta la violazione degli articoli 1150 e 2697 c.c., nonche’ del procedimento ex articolo 115 c.p..c, oltre a contraddittoria motivazione: la corte di merito pur avendo accertato che l’appellata era in mala fede quando ha eseguito le opere per le quali ha chiesto l’indennita’, ha ugualmente riconosciuto le migliorie nella misura pari alle spese sostenute per la loro realizzazione poiche’ sarebbe stato arduo ipotizzare un miglioramento di valore inferiore al costo delle opere in alcun modo rivalutate. Diversamente l’articolo 1150 c.c., prevede il diritto all’indennita’ del possessore di mala fede nella minore misura tra l’importo della spesa e l’aumento di valore conseguito dalla cosa, escludendo che i due criteri alternativi si equivalgano. Aggiungono le ricorrenti che sarebbe stato onere dell’attrice dimostrare che la spesa sostenuta si era tradotta nel corrispondente aumento di valore della cosa. Con la conseguenza che il riconoscimento della spesa delle opere eseguite, quale indicata dal c.t.u., e’ stata determinata in violazione delle norme di diritto e del procedimento richiamate, oltre ad essere contraddittoriamente motivata rispetto alle risultanze della relazione tecnica del 29.5.1997, la quale non avrebbe accertato alcun aumento di valore dell’immobile, ma solo riportato il costo relativo alle opere fatte eseguire dall’attrice (pagg. 8-15), dal momento che dalle prove testimoniali esperite risultava trattarsi di abitazione costruita ex novo nel 1975, dunque di un immobile nuovo e perfettamente efficiente.

Insistono le ricorrenti che la contraddittorieta’ della motivazione emergerebbe anche dal riferimento alla mancata rivalutazione dei costi, che comunque non spetterebbero al possessore in mala fede. L’illustrazione del mezzo e’ completata dalla formulazione dei seguenti quesiti di diritto: “se ai sensi dell’articolo 1150 c.c., l’aumento di valore conseguito dalla cosa per i miglioramenti recati dal possessore equivale all’importo della spesa sostenuta; se ai sensi dell’articolo 2697 c.c., il possessore deve provare positivamente che la spesa sostenuta per il miglioramento ha comportato un aumento di valore della cosa; se ai sensi dell’articolo 1150 c.c., l’indennita’ per i miglioramenti che sussistono al tempo della restituzione va commisurata alla rivalutazione successiva del costo delle opere; se ai sensi dell’articolo 115 c.p.c., il giudice puo’ porre a fondamento della decisione, in assenza della relativa prova, il fatto che la spesa sostenuta per i miglioramenti realizza un aumento di valore della cosa pari alla spesa; se ai sensi dell’articolo 115 c.p.c., il fatto risultante dalla prova proposta dalla parte che la casa era di nuova costruzione e dotata di tutti gli impianti e rifiniture efficienti, deve essere posto a fondamento della decisione della sussistenza dell’aumento di valore del bene”.

Inoltre, quali fatti controversi in relazione ai quali la motivazione e’ ritenuta contraddittoria vengono indicati: “l’inesistenza dell’aumento di valore dell’immobile conseguito alle opere eseguite dall’appettata, non accertato dalla consulenza tecnica e contraddetto dalla prova in giudizio che la casa era di nuova costruzione e dotata di tutti gli impianti e rifiniture efficienti; l’irrilevanza della rivalutazione del costo delle opere dopo la restituzione, per la determinazione dell’indennita’ di miglioria”.

Il terzo motivo merita accoglimento.

L’impugnata sentenza, pur riconoscendo l’applicabilita’ alla fattispecie della norma dell’articolo 1150 c.c., ne ha negato la concreta operativita’ in relazione all’accertata mala fede della resistente, osservando che le spese sostenute per i miglioramenti arrecati all’immobile non potevano essere inferiori all’aumento di valore del bene medesimo.

L’affermazione e’ frutto di un evidente errore.

Invero l’articolo 1150 c.c. nel disciplinare i diritti del possessore all’atto della restituzione della cosa indebitamente posseduta e rivendicata dal legittimo proprietario, stabilisce che per i miglioramenti sussistenti al tempo della restituzione egli ha diritto ad una indennita’ che per il possessore di buona fede va commisurata all’aumento del valore conseguito dalla cosa per effetto degli stessi, mentre per il possessore di mala fede va commisurata alla minore somma tra l’importo della spesa e l’aumento del valore; per le addizioni costituenti miglioramenti si applica per il possessore di buona fede lo stesso trattamento che per le migliorie, mentre per il possessore di mala fede si applica il sistema meno favorevole previsto per le accessioni dall’articolo 936 c.c.. Il diritto del possessore ad un indennizzo, secondo la previsione dell’articolo 1150 c.c., comma 2, per i miglioramenti arrecati alla cosa ed esistenti al tempo della restituzione, si correla all’incremento attuale ed effettivo che si verifica, in conseguenza di tali miglioramenti, nel patrimonio dell’attore in rivendicazione (Cass. 28 gennaio 1997 n. 845; Cass. 8 aprile 1983 n. 2498).

La Corte veneziana non ha tenuto conto del fatto che pur spettando sempre il diritto all’indennita’ per i miglioramenti, ai sensi articolo 1150 c.c., al possessore, non di meno la rilevanza della distinzione tra possessore di buona fede e di mala fede ai fini del calcolo di tale indennita’ deve essere valutata in concreto, indagine del tutto mancante nella gravata sentenza la quale si e’ limitata a considerare superficialmente che era arduo ipotizzare un miglioramento di valore inferiore al costo delle opere. Infatti, il diritto all’indennizzo, previsto dall’articolo 1150 c.c., a favore del possessore anche se di malafede, per i miglioramenti arrecati al bene altrui ed esistenti al momento della restituzione, si correla all’aumento di valore – attuale ed effettivo – che ne ricava il proprietario del bene (Cass. n. 16012 del 2002; Cass. n. 12342 del 2002). La statuizione, pertanto, astraendo dall’accertamento della fonte dell’incremento patrimoniale che si pretende abbiano avuto le proprietarie al momento della restituzione del bene e dalla comparazione con i costi documentati come sopportati dal possessore per la realizzazione delle opere de quibus, si e’ discostata da detto principio, avendo proceduto alla valutazione degli incrementi, come emerge chiaramente dalle ragioni esposte nella motivazione, in violazione dei menzionati criteri di effettivita’ ed attualita’.

Con il quarto motivo la denuncia di violazione dell’articolo 1150 c.c., e del vizio di contraddittoria motivazione e’ prospettata con riferimento al riconoscimento dell’indennita’ quanto alla trasformazione del rustico in autorimessa, eseguita in assenza di concessione edilizia e in difformita’ delle norme urbanistiche, la cui sanatoria e’ stata richiesta dalle stesse appellanti nel 1995, ottenuta nel 1996 ai sensi della Legge n. 724 del 1994, e non gia’ dalla (OMISSIS), posto che l’indennita’ spetta al possessore per i miglioramenti che sussistono al tempo della restituzione della cosa, avvenuta l’11.6.1993, allorche’ l’autorimessa era abusiva. A conclusione del mezzo e’ posto il seguente quesito di diritto: “se ai sensi dell’articolo 1150 c.c., spetta l’indennita’ al possessore per il miglioramento della cosa che non sussiste al tempo della restituzione, ma si realizza successivamente e per effetto dell’attivita’ del proprietario”.

Inoltre, quale fatto controverso in relazione al quale la motivazione e’ ritenuta contraddittoria viene indicato: “l’irrilevanza della sanatoria edilizia non chiesta ne’ ottenuta dal possessore a fondarne il diritto all’indennita’ per l’abuso commesso dal medesimo”. Anche il quarto motivo e’ da accogliere.

Invero conclusione analoga a quella formulata per il terzo mezzo merita la valutazione che il giudice di secondo grado ha ritenuto di formulare con riguardo all’autorimessa realizzata dalla (OMISSIS), superando il dato pacifico rappresentato dalla circostanza che essa era stata costruita senza l’autorizzazione amministrativa, richiesta dalla normativa urbanistica, con il rilievo, peraltro non sostenuto da alcuna indicazione di dati concreti, che tale pretesa illiceita’ (per essere stato il bene ricavato dal rustico) era stata sanata, senza l’indicazione di chi vi avrebbe provveduto e del quando sarebbe stata suscettibile di regolarizzazione. Questa conclusione non appare infatti conforme ai predetti caratteri di effettivita’ ed attualita’ che la legge richiede ai fini della sussistenza dell’incremento suscettibile di indennizzo. In particolare, risulta nella specie disatteso l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’indennizzo non spetta per le opere abusive, alla cui presenza – in ragione della loro non commerciabilita’ e comunque precarieta’, essendo esse suscettibili di rimozione – non puo’ collegarsi l’effetto di un effettivo incremento del valore del bene (Cass. 10 settembre 1997 n. 8834).

Con il quinto motivo e’ dedotta la violazione degli articoli 936 e 1150 c.c., oltre a motivazione contraddittoria ed insufficiente, per avere la corte di merito totalmente disatteso la richiesta delle ricorrenti di fare rimuovere all’appellata le opere eseguite nella loro proprieta’, stante la facolta’ alternativa data al proprietario di ritenere e pagare ovvero di fare rimuovere le opere eseguite dal terzo. Segue l’elenco delle opere di cui la sentenza impugnata ha fatto obbligo alle ricorrenti di pagare. L’illustrazione del mezzo e’ conclusa dalla formulazione del seguente quesito di diritto: “se ai sensi degli articoli 936 e 1150 c.c., spetta l’indennita’ al possessore di mala fede per addizioni costituenti miglioramenti della cosa di cui il proprietario ha domandato la rimozione”.

Inoltre, quale fatto controverso in relazione al quale la motivazione e’ ritenuta contraddittoria viene indicato: “le addizioni per le quali la sentenza ha riconosciuto il diritto all’indennita’ per migliorie, e la ragione per la quale l’insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, e’ il mancato accertamento delle addizioni per le quali non spetta l’indennita’”.

Questo motivo va dichiarato assorbito in ragione dell’accoglimento dei mezzi tre e quattro, investendo questione, quale quella dell’accertamento del diritto alla rimozione delle opere in contestazione, ai sensi dell’articolo 936 c.c., dipendente dal tema in essi affrontato.

Con il sesto motivo e’ dedotta la violazione degli articoli 948 e 2043 c.c., oltre a contraddittoria motivazione per avere la corte rigettato la domanda di (OMISSIS) di risarcimento danni nonostante la stessa avesse ottenuto dal Comune l’approvazione del progetto di ampliamento di altro fabbricato di sua proprieta’ posto a confine con quello di causa, per la sopraelevazione alla distanza esistente dal confine, ma a condizione del nulla osta del confinante, che all’epoca appariva essere la (OMISSIS), la quale rifiutava di prestare l’assenso, cosicche’ la stessa aveva dovuto rinunciare al progetto e realizzare una minore superficie di ampliamento di mq. 52, nonche’ un minore spazio scoperto di mq. 41, come accertati dal c.t.u.. Infatti il giudice del gravame non ha tenuto conto che prima che dal rifiuto del nulla osta, il danno le sarebbe derivato dalla indisponibilita’ dell’immobile ex articolo 948 c.c.. A corollario del mezzo e’ formulato il seguente quesito di diritto: “se ai sensi degli articoli 948 e 2043 c.c., chi possiede o detiene un bene di proprieta’ altrui deve risarcire al proprietario il danno derivante dalla mancata disponibilita’ e dalle mancate utilita’ ritraibili dal bene”.

Infine, quale fatto controverso in relazione al quale la motivazione e’ ritenuta contraddittoria viene indicato: “la supposta violazione di un obbligo di gestione del bene, quale fondamento della responsabilita’ risarcitoria dell’appellata, in luogo della violazione del diritto di proprieta’”.

Il motivo e’ fondato, perche’ la sentenza, con apodittica affermazione, ha ritenuto che il possesso dei beni ereditari da parte dell’erede chiamato in forza di testamento successivamente dichiarato nullo non comporti l’obbligo del risarcimento dei danni, “non apparendo ipotizzabile la violazione di uno specifico obbligo correlato alla gestione del bene in possesso dell’appellata (rectius: la (OMISSIS))”. Per contro, come gia’ ricordato, nel capo 9A del titolo primo del libro delle successioni, destinato alla petizione di eredita’, e’ disciplinata la possibilita’ dell’erede di agire contro chi possiede i beni ereditari a titolo di erede (articolo 533 c.c.) o contro i suoi aventi causa (articolo 534). La norma successiva stabilisce che le disposizioni in materia di possesso si applicano anche al possessore di beni ereditari, per quanto riguarda la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni, senza aggiungere null’altro. Occorre quindi far riferimento agli articoli 1147 e 1148 c.c.: quest’ultimo fa obbligo al possessore di buona fede di rispondere verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale e di quelli che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia; nessun cenno v’e’ quindi all’obbligazione risarcitoria. Va aggiunto, quanto alla buona fede, che secondo l’articolo 1147 c.c. “la buona fede e’ presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto”. Questa disposizione e’ comunemente ritenuta portatrice di un principio di portata generale (Cass. n. 8258 del 1997; Cass. n. 6648 del 2000) e quindi e’ applicabile anche alla fattispecie di cui all’articolo 535 c.c.. Ne consegue che chi agisce per rivendicare i beni ereditari puo’ pretendere il risarcimento dei danni, oltre ai frutti indebitamente percepiti, nei limiti fissati dall’articolo 1148 c.c..

Nella specie, essendo risultata accertata dal giudice del gravame la cessazione della buona fede della (OMISSIS) dal momento della introduzione della domanda giudiziale di petizione di eredita’, ossia dal 31.8.1979 (cfr. pag. 12 e 13 della sentenza impugnata), avendo la verifica della mala fede formato oggetto del contendere, oltre che di iniziativa probatoria volta a superare la presunzione vantata dall’erede testamentario, per tale via avrebbe dovuto avere spazio (anche secondo parte della dottrina) l’opzione risarcitoria ex articolo 2043 c.c., con riferimento all’epoca della mancata disponibilita’ del bene per mala fede della resistente ed in relazione all’approvazione del progetto di sopraelevazione presentato da (OMISSIS), come originariamente approvato dal Comune.

La decisione della Corte d’appello presta quindi il fianco alla censura riassunta nel quesito in esame, poiche’ essa, una volta statuito sul tempo in cui era cessata la presunzione di buona fede dell’erede testamentaria immessa nel possesso dei beni ereditari, poteva – svolti gli accertamenti di cui sopra – condannarla al risarcimento del danno per indebita detenzione e utilizzazione dei beni ereditari in considerazione dei danni pretesi e maturati successivamente a detta data.

Conclusivamente, vanno rigettati i primi due motivi di ricorso, accolti il terzo, il quarto ed il sesto, assorbito il quinto; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, che si atterra’ ai principi e ai rilievi come sopra enunciati ed esposti, e provvedera’ anche sulle spese del giudizio di cassazione, facendone questa Corte espressa rimessione (articolo 385 c.p.c., ult. cpv.).

P.Q.M.
La Corte, accoglie i motivi terzo, quarto e sesto del ricorso, assorbito il quinto, rigettati il primo ed il secondo;

cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.