cassazione civile sentenza 9 aprile 2015 n 7086

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 9 aprile 2015, n. 7086

Svolgimento del processo

1. P.T., Pe.Al. e la s.r.l. S. convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Bassano del Grappa, la s.r.l. C. edili S. ed il Comune di R. affinché fossero condannati, in solido, al risarcimento dei danni conseguenti ad un sinistro stradale verificatosi in data 18 dicembre 1997.
Esposero gli attori, a sostegno della domanda, che in quella circostanza la P. , alla guida della vettura di proprietà del coniuge Pe. , aveva urtato contro una grondaia posizionata sulla sede stradale dagli operai della società convenuta, la quale era stata incaricata dello svolgimento di alcuni lavori, e che a seguito dell’impatto aveva riportato lesioni che l’avevano tenuta lontana dal lavoro fino al successivo 6 febbraio 1998; di qui la domanda risarcitoria anche da parte della società S., datrice di lavoro della P. , la quale aveva dovuto retribuire un altro lavoratore durante il suo periodo di assenza.
Nel costituirsi in giudizio, i convenuti chiesero ed ottennero di poter chiamare in causa le rispettive società di assicurazioni, la I. per conto della società S. e la R.per conto del Comune di R..
Il Tribunale rigettò la domanda, condannando gli attori al pagamento delle spese nei confronti dei convenuti, con compensazione delle spese sostenute dalle società di assicurazione chiamate in causa.
2. La sentenza è stata appellata in via principale dagli attori soccombenti ed in via incidentale dalla società di assicurazione ITAS.
La Corte d’appello di Venezia, con pronuncia del 16 luglio 2010, ha respinto l’appello principale ed ha accolto quello incidentale, condannando gli appellanti principali alla rifusione delle spese del giudizio di primo grado anche in favore della società I.; ed ha condannato i medesimi al pagamento delle ulteriori spese del grado.
Ha osservato la Corte territoriale che nel caso specifico doveva ritenersi operante la previsione dell’art. 2051 cod. civ., poiché, trattandosi di strada collocata entro il perimetro urbano di un Comune di piccole dimensioni, certamente sussisteva a carico del medesimo un preciso obbligo di custodia. Ciò nonostante, la Corte ha aggiunto che l’obbligo di custodia derivante dalla norma citata non esime il danneggiato dall’onere di dimostrare l’esistenza del nesso di causalità tra la cosa in custodia e il danno, prova che era mancata.
Dall’istruttoria, infatti, era emerso che la P. era andata a scontrarsi con una grondaia metallica di circa 15 metri di larghezza; tuttavia non era stato provato dove si trovasse esattamente tale grondaia rispetto alla sede stradale; le deposizioni testimoniali, inoltre, erano discordi circa l’esistenza o meno della segnalazione dell’ostacolo, mentre le dimensioni di questo erano tali da poter essere percepite anche da lontano, sicché doveva ritenersi che la P. non stesse procedendo a velocità moderata. Di conseguenza, essendo mancata la prova della dinamica del sinistro e dell’esistenza del nesso di causalità, la domanda risarcitoria doveva essere respinta.
Né poteva attribuirsi un decisivo rilievo al fatto che, dopo l’incidente, era stata disposta la chiusura del tratto di strada interessato.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Venezia propone ricorso la s.r.l. S., con atto affidato a cinque motivi.
Resistono con separati controricorsi la I. Assicurazioni, la s.p.a. A.(già R. s.p.a.) ed il Comune di R..
La s.r.l. S. e la e la s.p.a. A. hanno presentato memorie.
All’udienza del 7 luglio 2014 questa Corte disponeva il rinvio della causa a nuovo ruolo per consentire l’acquisizione del fascicolo d’ufficio, mancante nonostante la richiesta di trasmissione di cui all’art. 369 del codice di procedura civile.
Fissata la nuova udienza di discussione, la parte ricorrente ha presentato un’ulteriore memoria.

Motivi della decisione

1. Occorre preliminarmente rilevare che il Comune di R. , controricorrente, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso in quanto la società ricorrente sarebbe priva di legittimazione per il fatto che le altre parti soccombenti non hanno proposto ricorso.
1.1. Tale eccezione non è fondata.
È stato più volte affermato che la qualità di parte legittimata a proporre l’impugnazione, o a resistere ad essa, spetta solo a chi abbia assunto la veste di parte nel giudizio di merito conclusosi con la decisione impugnata, indipendentemente dalla effettiva titolarità (dal lato attivo o passivo) del rapporto sostanziale dedotto in giudizio (v., fra le altre, la sentenza 14 luglio 2006, n. 16100, e l’ordinanza 29 luglio 2014, n. 17234). Nel caso in esame, la legittimazione della società S. deriva dall’aver assunto la qualità di parte nel giudizio di merito, mentre l’interesse ad impugnare sorge dalla soccombenza della medesima rispetto alla domanda originaria, che trae il proprio fondamento nell’assunto della ricorrente di aver subito un pregiudizio, sia pure indiretto, in conseguenza del sinistro, derivante dall’aver dovuto retribuire un altro lavoratore durante il periodo forzato di assenza della P. determinato dall’incidente per cui è causa.
2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta nullità della sentenza, per violazione degli artt. 101, 190 e 352 cod. proc. civ. e dell’art. 24 della Costituzione.
Rileva la società ricorrente che la sentenza sarebbe nulla in quanto – essendosi tenuta l’udienza di precisazione delle conclusioni in data 18 gennaio 2010, con concessione dei termini di legge per lo scambio degli scritti difensivi di cui all’art. 190 cod. proc. civ. – la sentenza è stata deliberata, come risulta testualmente, nella camera di consiglio del 31 marzo 2010, ossia prima che scadessero i termini per lo scambio delle memorie di replica. Il ricorso richiama, sul punto, la sentenza 24 marzo 2010, n. 7072.
2.1. Il motivo non è fondato.
Rileva il Collegio che la decisione impugnata, effettivamente, risulta essere stata assunta prima che scadessero i termini di cui all’art. 190, primo comma, del codice di procedura civile. Dal controllo degli atti, reso doveroso dal tipo di censura prospettata, emerge che l’udienza di precisazione delle conclusioni fu tenuta il 13 gennaio 2010; sicché i 60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali andavano a scadere il successivo 14 marzo, mentre gli ulteriori 20 giorni delle repliche andavano a scadere il 3 aprile 2010; ora, mentre la memoria di replica degli odierni ricorrenti fu depositata il 2 aprile 2010, la decisione della Corte d’appello risulta essere stata assunta nella camera di consiglio del 31 marzo 2010, ossia in una data antecedente e, perciò, non rispettosa dei termini di legge.
Da tanto consegue che il motivo in esame, che ha un rilievo preliminare ed assorbente, dovrebbe essere accolto alla luce del prevalente orientamento che ha ravvisato in siffatta ipotesi un motivo di nullità della sentenza (v. le sentenze 3 giugno 2008, n. 14657, e 24 marzo 2010, n. 7072, nonché le ordinanze 9 marzo 2011, n. 5590, e 5 aprile 2011, n. 7760).
2.2. Osserva il Collegio che l’orientamento appena ricordato non è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte. La sentenza 23 febbraio 2006, n. 4020, ad esempio, richiamando ulteriori precedenti conformi, è pervenuta ad una conclusione opposta, rilevando che l’assunzione della decisione prima della scadenza dei termini di cui all’art. 190 cod. proc. civ. non è, di per sé, motivo di nullità della sentenza, essendo indispensabile, perché possa dirsi violato il principio del contraddittorio, che la irrituale conduzione del processo abbia prodotto in concreto una lesione del diritto di difesa. A tal fine, la parte deve dimostrare che l’impossibilità di assolvere all’onere del deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica ha impedito alla difesa di svolgere ulteriori e rilevanti aggiunte o specificazioni a sostegno delle proprie domande o eccezioni rispetto a quanto già indicato nelle precedenti fasi del giudizio.
Ritiene la Corte, senza volere in tal modo dare corso ad un vero e proprio contrasto, che la tesi di cui alla sentenza appena citata vada valorizzata, soprattutto alla luce delle più recenti elaborazioni giurisprudenziali – che hanno trovato un’eco autorevole anche nella sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte 17 febbraio 2009, n. 3758 – secondo cui la lesione delle norme processuali non è invocabile in sé e per sé, essendo viceversa sempre necessario che la parte che deduce siffatta violazione adduca anche, a dimostrazione della fondatezza, la sussistenza di un effettivo pregiudizio conseguente alla violazione medesima (v., sia pure in relazione a fattispecie diverse, le sentenze 18 luglio 2008, n. 19942, 7 ottobre 2010, n. 20811). È stato affermato nella sentenza 23 febbraio 2010, n. 4340, ad esempio, che in materia di impugnazioni civili, dai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire si N^K^ desume quello per cui la denunzia di vizi dell’attività del giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa concretamente subito dalla parte che denuncia il vizio. Da ciò quella pronuncia ha tratto la conclusione per cui, ove la parte proponga ricorso per cassazione deducendo la nullità della sentenza impugnata per non aver avuto la possibilità di replicare, con apposita memoria, alla comparsa conclusionale dell’avversario, a causa della morte del proprio procuratore, essa ha l’onere di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre per contrastare quelle della controparte ovvero le istanze, le modifiche o le deduzioni che si sarebbero volute presentare, nonché il pregiudizio derivato da siffatta carenza di attività processuale.
Nel caso oggi in esame, dando continuità alla ricordata giurisprudenza – che trova un sicuro ancoraggio costituzionale nel principio della ragionevole durata del processo – si trae la conclusione che non è sufficiente, ai fini della declaratoria di nullità della sentenza qui in esame, indicare il dato puro e semplice del mancato rispetto dei termini di cui all’art. 190 cod. proc. civ. per il deposito, nella specie, della memoria di replica; e che è invece necessario dimostrare quale sia stata la lesione concretamente subita, magari indicando una o più argomentazioni difensive, contenute nello scritto depositato successivamente alla data della decisione, la cui omessa considerazione avrebbe avuto, ragionevolmente, probabilità di condurre il giudice ad una decisione diversa da quella effettivamente assunta.
Ora, nulla di tutto ciò indica la parte ricorrente, che si limita a invocare la lesione di un termine; per cui la presunta nullità dovrebbe derivare dalla violazione di una norma procedurale assunta in sé e per sé, senza alcun collegamento con un effettivo pregiudizio.
Il Collegio, pertanto, ritiene che il motivo in esame vada respinto.
3. Con il secondo motivo di ricorso si lamentano omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di una serie di circostanze relative all’incidente, oltre a violazione degli artt. 2051 e 2697 cod. civ. e degli artt. 115 e 116 del codice di procedura civile.
Dopo aver richiamato i principi giurisprudenziali in tema di applicazione dell’art. 2051 cod. civ., la società ricorrente osserva che il fatto dannoso ed il nesso di causalità erano stati dimostrati in modo più che sicuro. Risultava dalle fotografie e dalle deposizioni testimoniali che la grondaia si trovava sulla sede stradale in modo da impedire il passaggio e che non era stata adeguatamente segnalata. Per cui era evidente che la P. era finita contro l’ostacolo, reso poco visibile anche dal colore e dalla pioggia che c’era nel momento dell’incidente. Del tutto immotivate sarebbero, poi, le conclusioni circa la velocità non moderata tenuta dalla P. .
3.1. Il motivo è fondato.
La sentenza impugnata, pur contenendo l’enunciazione di una serie di principi che sono corretti e conformi alla giurisprudenza di questa Corte, perviene ad una conclusione tutt’altro che coerente con le premesse e, soprattutto, non chiara e lineare nel suo svolgimento logico.
La Corte veneziana, infatti, esordisce affermando che il primo motivo di appello – relativo alla presunta lesione dell’art. 2051 cod. civ. – è fondato; e, a sostegno di tale conclusione, ripercorre (correttamente) la giurisprudenza di legittimità sull’interpretazione dell’obbligo di custodia di cui all’art. 2051 cod. civ., precisando che, nel caso specifico, l’obbligo di custodia gravante sui Comuni in ordine alla manutenzione delle strade era agevolmente esercitabile, date le ridotte dimensioni del Comune di R.; tanto più che il tratto di strada interessato si trovava all’interno del centro abitato e che, data la sua brevità, poteva facilmente essere chiuso al traffico (come poi avvenne dopo l’incidente in questione).
Fatta simile premessa, la Corte d’appello richiama (correttamente) le regole sull’onere della prova racchiuse nell’art. 2051 cod. civ., evidenziando che il custode può sottrarsi alla propria responsabilità solo fornendo la prova del caso fortuito. Aggiunge poi la sentenza che, tuttavia, a carico del danneggiato permane l’obbligo di provare “non solo l’evento dannoso, ma anche il nesso di causalità tra detto evento e (la) specifica condizione di pericolosità della cosa che lo avrebbe cagionato”.
Nel momento in cui, però, la Corte di merito passa a fare concreta applicazione dei suindicati principi, il ragionamento non si dipana secondo un coerente iter logico, offrendo il fianco alle censure prospettate.
Osserva infatti la pronuncia in esame che nella specie è pacifico “che l’appellante andò ad urtare violentemente la grondaia metallica di circa 15 mi che occupava parte della sede stradale e le cui dimensioni sono desumibili dalle riproduzioni fotografiche in atti”; salvo aggiungere, subito dopo, che non risultava “in alcun modo dimostrata la dinamica del sinistro, né, conseguentemente, appare possibile ritenere provata la sussistenza del nesso eziologico tra la res e il danno, nesso che può essere escluso anche dal comportamento colposo del danneggiato”.
Dopo di che la sentenza passa a valutare le prove testimoniali, osservando che, in base ad esse, non era dimostrata l’esatta collocazione della grondaia rispetto al piano stradale, ed aggiunge che l’ingombro stradale doveva ritenersi visibile anche da lontano e che la velocità tenuta dalla P. era non particolarmente moderata o comunque adeguata allo stato dei luoghi. Il tutto per arrivare alla conclusione che l’appellante – in realtà gli appellanti erano tre – si era “astenuta dal fornire prova adeguata circa la dinamica del sinistro e il nesso eziologico tra il danno e la cosa”.
3.2. Osserva la Corte che siffatte affermazioni, oltre ad essere tra loro contraddittorie, sono anche in parte errate e tali da non consentire di comprendere con pienezza quale ragionamento la Corte d’appello abbia svolto. Se la vettura condotta dalla P. andò ad urtare contro la grondaia, il nesso eziologico è chiaro; e, comunque, il comportamento colposo del danneggiato, ove esistente, non fa venire meno il nesso di causalità, ma è utilizzabile, semmai, ai fini di provare il fortuito.
La giurisprudenza di questa Corte ha ormai da tempo riconosciuto che, ai fini dell’esonero del custode dalla responsabilità prevista dall’art. 2051 cod. civ., il caso fortuito può essere integrato anche dal fatto colposo del danneggiato; ma occorre che tale affermazione sia chiara e motivata.
Nella specie, al contrario, la sentenza impugnata non è arrivata ad affermare che il comportamento della P. era stato tale da integrare gli estremi del fortuito; ma ha solo affermato, in modo incoerente, che la dinamica del sinistro non era chiara e che il comportamento della danneggiata non era esente da colpe. È lampante, quindi, la sussistenza del vizio di motivazione censurato dalla ricorrente, nonché la violazione dell’art. 2051 cod. civ., perché una volta provato che la vettura dell’appellante era andata ad urtare contro l’ingombro, doveva essere la parte convenuta a dimostrare l’esistenza del fortuito, cosa che la Corte d’appello non ha riconosciuto, o almeno non in modo comprensibile.
4. L’accoglimento del secondo motivo di ricorso esime questa Corte dall’esame degli altri, che rimangono assorbiti.
La sentenza impugnata, pertanto, è cassata e il giudizio rinviato alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione personale, la quale provvederà ad una nuova ricostruzione dei fatti che sia coerente con le premesse e con le indicazione fornite dalla presente pronuncia, eliminando le evidenziate contraddittorietà della motivazione.
Al giudice di rinvio è demandata anche la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.